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CINEMA: BOB DYLAN, QUESTO FAMOSISSIMO SCONOSCIUTO

Cultura  | 31 January 2025

Bob Dylan non ha mai amato raccontarsi; e anche quando gli viene chiesto delle sue canzoni, rimane interdetto, quasi senza parole – ma poi che vuoi che ne sappia un artista, un poeta della sua inarrivabile grandezza, di come accadano le sue canzoni: un artista, un poeta, non può fare altro che rimettersi alla molla a riaffilare ogni volta i suoi strumenti appena finito il suo lavoro e aspettare, per dirla con Ernest Hemingway. E poi a Dylan è sempre piaciuto più di tutto raccontare degli altri più che di se stesso – gli artisti davvero grandi fanno questo –, soprattutto delle canzoni degli altri, che canta e ama come fossero le sue. Del resto lui stesso non è mai riuscito a finirla per davvero la sua biografia, fermatasi da decenni al primo volume, Chronicles: Volume One (1st Edition 2004), che poi è un memoriale, una miscellanea di fatti e aneddoti raccolti non cronologicamente, che molto risente nella sua stesura di una benedetta influenza, come di una febbre rigenerante, come se nella scrittura fosse stato preso da A Moveable Feast (1964) hemingwayana. Ma è nelle sue canzoni che possiamo ascoltare ugualmente tutto della passione che è stata la sua vita, dalla prima all'ultima che ha scritto e cantato. A Dylan interessa solo esibirsi dal vivo, dal vivo delle sue canzoni, tutte, dalle prime alle ultime, da quelle che hanno fatto la colonna sonora della Controrivoluzione a Murder Most Foul, l'ultima traccia del suo ultimo LP, Rough and Rowdy Ways, 2020, pubblicato il 19 giugno in piena pandemia, opera circolare, che ripercorre e ripropone tutta la sua poetica come cosa nuova – gli artisti davvero grandi fanno questo. Quando il poeta di Duluth il 27 marzo 2020 pubblica come singolo Murder Most Foul, lo accompagna con queste parole: "Greetings to my fans and followers with gratitude for all your support and loyalty across  the years. This is an unreleased song we recorded a while back that you might find  interesting. Stay safe, stay observant, and may God be with you. / Saluti a tutti voi con gratitudine per tutto il sostegno e la lealtà dimostrati nel corso degli anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato un po' di tempo fa e che potreste trovare interessante. State al sicuro, siate cauti, e che possa Dio esservi accanto." Che possa Dio esservi accanto.

James Mangold (New York, 1963), invece, è davvero un grande regista. Uno di quei cavalli vincenti che lo vedi già dalla partenza. Un fuoriclasse. Un purosangue del cinema americano. Nel 1997 è stato capace di fare recitare pure Sylvester Stallone, affidandogli il ruolo di protagonista in Cop Lad, dove lo stallone italiano interpreta uno sceriffo rintronata in balia di un clan di sbirri nel loro “giardinetto” al di là dell'Hudson. Il film vanta un cast stellare: Robert De Niro, Harvey Keitel, Ray Liotta, tutti pronti a lavorare al minimo sindacale pur di dare la possibilità al giovane James di fare il suo secondo film – difatti aveva già debuttato al Sundance Film Festival di Robert Redford (manifestazione dedicata al cinema indipendente americano che si svolge ogni anno nello Utah, che ha visto il nascere di tantissimi registi come Quentin Tarantino, Jim Jarmusch, Steven Soderbergh e molti altri) nel 1995 con Dolly's Restaurant aggiudicandosi il premio per la miglior regia. Cop Lad, film indipendente, costò 15 milioni di dollari e ne incassò 45; e avrebbe meritano almeno di essere candidato all'Oscar, e Stallone di vincere la statuetta per la migliore interpretazione da protagonista: accettò di ingrassare realmente di 30 chili per avere la parte, senza ricorrere ai ridicoli mascheramenti di cui è ricco oggi il cinema italiano – nel film poi si registra un uso geniale, interno-esterno, del rumore di fondo che ha fatto scuola ed è tuttora ineguagliato, espediente utilizzato per caratterizzare il personaggio dello sceriffo Freddy Heflin, il protragonista interpretato da Stallone, poiché sordo a un orecchio e per questo ascolta il mondo in modalità "mono".

Mangold è anche il regista di Ragazze interrotte (1999), che valse l'Oscar ad Angelina Jolie per il ruolo non protagonista, a proposito di registi capaci di fare recitare chiunque: nella storia del Cinema più bravo di lui c’è stato solo Vittorio De Sica, come regista maestro di recitazione. E, soprattutto per quello che interessa ora, Mangold è anche il regista di Walk the Line (2005), dove, magistralmente, ci racconta la vita insieme di Johnny Cash e June Carter Cash, la coppia più bella della Storia della musica tutta, portando, ancora una volta, i propri attori alle loro massime interpretazioni, cioè Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, quest'ultima aggiudicandosi l'Oscar – anche in questa produzione i due attori interpretarono direttamente le canzoni del film, senza doppiaggi o playback. Ma non basta, perché, come detto poco sopra per Dylan, l'opera di un grande artista è circolare, difatti fu proprio Cash la prima grande star della musica popolare americana ad accogliere il giovanissimo Bob Dylan proponendogli di interpretare insieme, a braccio, così come venivano, un mucchietto di canzoni, a Nashville, Tennessee, giusto un paio di giorni, 17 e 18 febbraio 1969 – Cash era il suo idolo, che di lì a poco sarebbe volato perché doveva fare il concerto più importante dell'anno: no, non a Hyde Park con i Rolling Stones; no, non a Woodstock; no, non sull'isola di Wight; no, non ad Altamont: molto prima, il 24 febbraio, Cash sarebbe atterrato a nord di San Francisco per suonare nella prigione di massima sicurezza di San Quintino, e con lui avrebbe portato anche sua moglie, June; e tutto questo, per Bob Dylan, fa tutta la differenza tra un grande cantante e un idolo.

La prima cosa che disorienta di A Complete Unknown è che tratti la biografia di un artista ancora vivente, quindi ancora di un'opera in itinere, e con Dylan più che mai considerato il suo ultimo LP in studio (Rough and Rowdy Ways, 2020) e il continuo girare il mondo suonando e cantando come quando poco più che ventenne sconvolse il mondo tutto. Ma Dylan, per nulla scaramantico, pare abbia avallato tutto il progetto, che invero si limita alla gioventù del poeta, cioè ai Chronicles (anche se come soggetto è accreditato Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, del 2015): il suo arrivo a New York (1961) direttamente dai grandi laghi di Duluth; i primi incontri con la musica popolare americana e la repentina svolta elettrica (22 marzo 1965, Bringing It All Back Home); e i primi amori, e i primi amici, e i primi stimatori. Quindi Mangold, dimostrandosi ancora una volta un regista e sceneggiatore di razza, sapeva di dover proporre, per forza di cose, una biografia parziale.

Anche qui riparte dal "gioco di coppia", e, come con Johnny Cash e June Carter Cash, concentra il suo racconto sulla relazione tra Bob Dylan e Joan Baez; Dylan che aveva alla prima occasione utile mollato Susan Rotolo, italoamericana di genitori comunisti, nonostante durante la loro relazione la raggiunse fino a Perugia, dove la ragazza frequentò l'Università per Stranieri, perché non riusciva a starle lontano: The Freewheelin’ del 1963 si potrebbe considerare un disco scritto a quattro mani per l'influenza significativa della Rotolo sulla scrittura di Dylan, difatti li vediamo abbracciati e intirizziti per le vie innevate del Greenwich Village persino sulla copertina del disco; ma, nonostante tutto, già nel 1962, Dylan amoreggiava con la Baez – la Rotolo rimase pure incinta di Dylan ma abortì: è deceduta a New York il 25 febbraio 2011. La relazione tra i due avrebbe dovuto essere maggiormente approfondita in sceneggiatura, ma credo ci siano stati dei problemi di ordine legale considerato che è l'unico personaggio del film che non ha il suono nome reale. Ma è un soggetto talmente complesso che meriterebbe un film tutto suo.

Mangold quindi riparte dalla coppia e dal concetto di physique du rôle, totalmente tralasciato dal nostro cinema dove oramai vediamo dei ridicoli pupazzi ventriloqui che si muovono sulla scena come in una sfilata carnevalesca: l'esempio più deteriore lo possiamo osservare nell’applauditissimo Craxi che ha fagocitato Pierfrancesco Favino, credo il peggiore attore oggi in circolazione eppure fa scuola: anche il Mussolini di Luca Marinelli non sfugge al decadentismo recitativo italiano, influenzato dalla cafonaggine registica di Paolo Sorrentino, che è arrivata a compromettere addirittura l’ultimo racconto di Moro di Marco Bellocchio, quest’ultimo totalmente dimentico del proprio. Mangold, infatti, ricerca interpreti che fisicamente somiglino ai personaggi e alle voci reali che vuole mettere in scena, e li trova in Timothée Chalamet, nella pare di Dylan, e in Monica Barbaro, nella parte di Baez, senza trucchi e senza inganni, e senza il bisogno di dover fabbricare degli stupidi e costosissimi, nonché difficilissimi da indossare, pupazzi ventriloqui – Elle Fanning interpreta invece la povera Rotolo, ribattezzata, per questioni di liberatoria immagino, in Sylvie Russo. E tutto ciò nell'ottica dell'interpretazione e non dell'imitazione.

Il regista dimostra di aver ben presente due questioni non facili da affrontare. Prima questione: sa di affrontare la biografia di un artista ancora vivo e in carriera, quindi si limita a raccontarne una parte. Seconda questione: sa che chi affronta la biografia di Bob Dylan, deve raccontare la storia della musica popolare americana perché Dylan è, innanzitutto, una grande appassionato della canzone. Ecco, in realtà, Mangold non fa un racconto biografico di Dylan ma della sua musica. E in più fa un omaggio a tutta la musica popolare americana, che ha avuto due grandi riformatori: Elvis Presley, che la porta agli adolescenti, facendo scoprire la loro esistenza al mondo intero, e Bob Dylan, che la porta invece ad assumere compiutamente una evoluzione politica formale e sostanziale, facendosi esplicita denuncia civile, creando la crisi e, quindi, lo scandalo: il concerto “elettrico” di Newport del 25 luglio 1965 ne rappresenta la metafora perfetta. Allora questo di Mangold non racconta Dylan (soggetto troppo complesso e significativo per qualsiasi film, durasse anche cento ore, che sta alle sue canzoni come un poeta ai suoi versi) bensì i suoi primi dischi, vale a dire da Bob Dylan (1962) a Highway 61 Revisited (1965), illustrando così il modo in cui il poeta a saputo rinnovare la tradizione musicale americana portandola alla suo massimo grado di espressione – gli artisti davvero grandi fanno questo. Che poi è il motivo che ha portato nel 2016 all'assegnazione del premio Nobel per la letteratura, e con questo riconoscimento l'Accademia di Svezia ha voluto elevare il testo per canzone a genere letterario premiando il suo autore più importante. Quindi, per chi ancora non lo avesse capito (tra questi quasi tutti i peggiori poeti e critici italiani), Dylan è stato premiato per le sue canzoni e non per le sue poesie, cioè non come poeta bensì come cantautore. Ovviamente si è poeti non solo se si scrivono poesie, anzi, quasi sempre quelli che scrivono poesie non sono affatto poeti.

Per questo il film, che Mangold ferma consapevolmente al 29 luglio 1966, quando Dylan e la sua Triumph Bonneville T100 scivolano sulla strada per Woodstock fracassandosi più di una vertebra, si può considerare riuscito e bene interpretato, dove svetta, oltre a un ottimo Edward Norton nelle vesti di Pete Seeger (incomprensibile invece la parte di Scoot McNairy in quelle di Woody Guthrie; canoniche quelle di Elle Fanning, forse perché impedita del pieno dato reale, e di Monica Barbaro, ma eccellente nel cantato; sufficientemente caratterizzante quella di Boyd Holbrook nella parte di Johnny Cash), Timothée Chalamet, che sa ridarci con fedeltà il Dylan dei vent'anni, che è poi quello degli ottanta, cioè una sola persona alla quale piace, su tutto, suonare la sua musica e suonarla dal vivo dentro il suo infinito tour: per chi fosse da quelle parti, il prossimo 25 marzo riprende il suo Rough And Rowdy Ways World Wide Tour dal Tulsa Theater, Oklahoma (le altre date: https://www.bobdylan.com/). Questo di Mangold, però, è un film che per essere apprezzato appieno deve essere preceduto da una buona conoscenza del tema trattato, vale a dire conoscere la grande storia della musica popolare americana. Questo è un film molto americano. Profondamente americano. E questo non è un pregio e non è neppure un difetto.

Bob Dylan è il più grande artista dell'umanità perché è quello che ha più inciso sulla società facendosi eletto cantore di molteplici, infinite generazioni; e chi non l'ha ancora riconosciuto, non è degno della vita. Sì, della vita. Perché per un artista l'arte e la vita sono la medesima cosa. Che Dio glorifichi il suo poeta più grande. Che possa Dio essergli accanto.

MASSIMO RIDOLFI  

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