CINEMA: DAVID LYNCH
«La morte di Laura Palmer ha profondamente scosso tutti, uomini, donne, bambini, perché la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo: li ho ritrovati a Twin Peaks.»
Dale Cooper, Twin Peaks, 1990.
Quando muore un artista davvero grande, il mondo che quotidianamente guardiamo dei vivi subisce uno scossone, anche a non accorgersene.
Così succede che il mondo di quelli che guardiamo vivi, d’un colpo, si fa più buio, anche a non accorgersene.
David è cresciuto mangiando tonnellate di ciambelle, bevendo ettolitri di caffè bollente, fumando scatoloni di sigarette e ascoltando Elvis Presley – da qui il suo invidiabile ciuffo a banana; da qui il personaggio dell’agente speciale dell’F.B.I. Dale Cooper nella serie Twin Peaks, che tra il 1990 e il 1991 terrorizzò una intera generazione. Tutta la sua opera arriva da tutto questo. Tutto arriva dai gelidi inverni di Missoula, una piccola città del Montana, nel ruvido Nordwest, dove trascorre tutta la sua infanzia immaginando e giocando, giocando e immaginando, sempre sospeso tra divertimento e spavento, tra lo spavento e il divertimento.
David non ha mai guardato dal mirino di una macchina da presa. No. Si accomodava invece dietro un monitor e da lì dava i suoi comandi; è da lì che, prima di tutti, vedeva il suo film. E lasciava andare liberi i suoi attori. E si divertiva da matti a lasciarli liberi i suoi attori dopo il Ciak! – pochissimi, a differenza dell’annichilente Stanley Kubrick: nella scena dove il capocuoco dell’Overlook Hotel spiega al piccolo Danny la “luccicanza”, arriva a batterne 148 di Ciak! prima di chiudere con quella che per lui era buona.
A proposito del suo amore per gli attori, ricordo che accettò di tornare al cinema per mettersi non dietro ma davanti alla macchina da presa che riportava sul monitor il primo e l’unico film da regista del più amato caratterista della Storia del Cinema, Harry Dean Stanton, in Lucky, 2017; e solo a titolo di amicizia accettò il cammèo d’attore affinché, grazie al suo nome in cartellone, il film avesse maggiore visibilità. Stanton, per chi se lo stesse chiedendo, è il protagonista, Trevis, di Paris Texas di Wim Wenders, 1984, Palma D’oro a Cannes, nonostante tutte le vicissitudini produttive, l’abbandono di Sam Shepard e le notti insonni del regista di Düsseldorf passate a proseguire la sceneggiatura lasciata a quel punto solo nelle sue mani.
E a proposito di Stanton, non ho mai avuto dubbi che David abbia fatto il film più bello della storia del Cinema, Inland Empire, 2006, il suo ultimo, esteticamente imitatissimo, soprattutto dall’ultimo Terrence Malick (The Tree of Life, 2011), ma inarrivabile da chiunque. Il primo girato da David tutto in digitale. Scritto diretto e, soprattutto, montato da David: il montaggio è la grammatica del cinema e pochissimi registi la sanno la grammatica del cinema – Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock (che montava direttamente in macchina, cioè direttamente sulla pellicola della macchina da presa, che arrivava alla moviola già segnata dove bisognava tagliare e incollare; il primo a usare lo storyboard durante le riprese, cioè a disegnare il fumetto dell’intero film prima di girarlo; il primo a curare maniacalmente la grafica dei titoli di testa; il primo a dare un senso cinematografico alla colonna sonora: ecco, è da Hitchcock che ha più rubato David per cercare pezzi utili a costruire il suo di Cinema) e pochi altri. Ma del resto Chaplin e Hitchcock l’hanno proprio fatto e scritto per intero il libro di grammatica del cinema, indubitabilmente. Perciò Inland Empire è Cinema in purezza.
All’uscita dalle sale di quel 2006, il commento più comune a Inland Empire fu: “Non ci ho capito niente ma è stato bellissimo!” – e non si potrebbe fare critica più sensata a proposito di un’opera d’arte, perché nell’arte non c’è proprio nulla da capire se non percepirne la Bellezza: sta tutta in questo concetto la critica dell’arte. Inland Empire è, in più, un film metacinematografico, vale a dire un film su un film del Cinematografo. Un film che surclassa addirittura Effetto notte (1973) di François Truffaut. Inland Empire è un film tutto sulla immaginazione e quindi sulla finzione cinematografica. È un film viaggio. È un film che, dopo 180 minuti, ti lascia acceso nella domanda: “Cosa ho visto?”, “Che è stato?” o meglio: “Cosa mi è successo?”
Ma ancora a proposito di Stanton, David era capace pure nel riportarci la semplicità grande dei sentimenti autentici, come in Una storia vera, 1999, dove racconta il legame di sangue portandoci su un tosaerba alla ricerca di un fratello malato e dimenticato.
David era; David è un poeta del bianco e nero (The Elephant Man, 1980) e del colore, della gioia e del dolore, del sogno e dell’incubo – e viceversa: del colore e del bianco e nero, del dolore e della gioia, dell’incubo e del sogno. David è neorealista e surrealista; David è Vittorio De Sica e Luis Buñuel – e viceversa: surrealista e neorealista, Luis Buñuel e Vittorio De Sica. David è tutto il Cinema, prima e dopo di lui. David sa fare il suo mestiere. David sa ridere e tremare, e tremare e ridere. David è tutto quello che amiamo dell’America.
David è il più grande illusionista della Storia del Cinema – forse è per questo che (e me ne accorgo solo ora) più che di David, per ricordarlo, qui e ora, ho scritto di Cinema.
MASSIMO RIDOLFI
Ph.: David Lynch (1946-2025) e Harry Dean Stanton (1926-2017).