Due giorni dopo che il corpo di Aldo Moro fu riconsegnato dalle Brigate Rosse al Popolo Italiano, avrei compiuto 5 anni: non ho mai creduto alla “santità” di Moro, troppo potente e troppo rispettato e ascoltato all’interno della Democrazia Cristiana per poter interpretare pure la parte del santo. No. Non era un santo. E non era neanche il migliore. Era un uomo di partito, nel bene e, soprattutto, nel male di questo Paese, e la trappola dentro cui rovinò il P.C.I. di Enrico Berlinguer, con quella stretta di mano dominante quel gradevole 28 giugno del ‘77, ne dimostra tutta l’astuzia politica: Elio Petri ne colse pienamente il profilo politico nel suo capolavoro, Todo Modo, 1976, affidandone il corpo e l’anima compromessi della Democrazia Cristiana a Gianmaria Volonté, senza trucchi e senza inganni. A farne un santo laico, seppure della Democrazia Cristiana, braccio politico della Chiesa in Italia – negarlo sarebbe offensivo anche dell’intelligenza più debole –, ci pensarono le Brigate Rosse, ma non nel suo sequestro, dentro il quale Moro – e le sue lettere lo dimostrano – tornò uomo e pensò a cercare di salvare solo se stesso da un nugolo di vili decerebrati, bensì nel suo assassinio: nessuno avrebbe mai creduto che le Brigate Rosse facessero santo Moro, già di Casa al Vaticano, uccidendolo, cominciando così un processo di beatificazione che avrebbe messo in salvo gli affari tra Chiesa e Casa della Democrazia Cristiana per altri quattordici anni almeno, vale a dire fino a Tangentopoli.
Quando Marco Bellocchio affrontò per la prima volta L’affaire Moro – per dirla con Sciascia –, era il 2003 con Buongiorno, notte, dove, sul finale, liberò l’anima (o il fantasma) di Moro, ma l’Italia dell’anima di Moro non avrebbe saputo che farsene perché solo il corpo l’avrebbe potuta salvare, come eucarestia laica. Subito pensai che a Bellocchio fosse mancato il coraggio, in quel film, di riscrivere la Storia; pensai: E se Moro, con un incredibile colpo di scena, fosse stato liberato vivo dalle Brigate Rosse, questo Paese forse sarebbe davvero cambiato, divenuto laico? Pensai che proprio lì, in quello spazio aperto quel giorno di marzo in Via Fani e chiuso dentro quei dodici vigliacchi colpi d’arma da fuoco di maggio conservati tutti nel corpo di Aldo Moro in Via Caetani, le Brigate Rosse avessero mancato la Rivoluzione, che passa, se passa, sempre dalla vita non certo dalla morte.
Marco Bellocchio cerca di correggere questo suo finale quasi vent’anni più tardi con Esterno notte (ancora disponibile su RaiPlay) quando oramai è scaduta ogni sorpresa, ogni intuizione, ogni suggestione davvero utile, e finisce così per produrre una caricatura di quei fatti e di quei personaggi che non hanno cambiato, anzi hanno ulteriormente peggiorato questo Paese. Quelli che mette in scena Bellocchio sono dei pupazzi, confuso pure lui dal premiatissimo cafone in stile sorrentiniano – i premi posso fare danni davvero grossi –, dimenticata totalmente la Lezione di Stanislavskij – nessuno l’ha intesa e insegnata meglio di Nicholas Ray, tutto registrato in una pubblicazione imperdibile per chi fosse interessato all’arte della recitazione, Sono stato interrotto, Bompiani, 2011 –, dimenticando che immedesimazione non significa rassomiglianza ma arrivare a sentire il personaggio da interpretare avvicinandosi a esso con gli strumenti dell’esperienza, pescando nella propria memoria emotiva sensazioni che avvicinino quelle necessarie al dato personaggio. Ma si torni soprattutto a studiare Fellini, al suo insegnamento nel cercare l’eccentricità del volto umano, qual è. Eppure in Buongiorno, notte Bellocchio non mascherò come un pupazzo il riuscito Roberto Herlitzka, che faceva l’attore che ha studiato e interpreta il personaggio affidatogli senza la necessità di mascherarsi, o di mettersi a riempir pupazzi, rimanendo Roberto Herlitzka che interpreta Aldo Moro, che non lo diventa. Non è necessario questo alla recita.
Questo film manca totalmente di rigore. Per questo riesce in una impresa quasi impossibile perché, in un colpo solo, manca sia il dramma che la satira. Ma il suo difetto maggiore è la cocciuta ricerca di un effetto scandaloso dentro un fatto risaputo.
Credo di non aver mai visto un film peggio fatto e interpretato, dove un regista sempre raffinato perda d’un sol colpo tutta la sua raffinatezza, e girato tutto sopra le righe, voce e mimica: insopportabile il pupazzo di Aldo Moro che ha indossato Fabrizio Gifuni per tutto il tempo, che confonde piuttosto spesso l’arte della recitazione con quella deteriore dell’imitazione – vizio di molti nostri attori che hanno fatto loro il peggio del cinema americano, tradendo non solo Stanislavskij ma persino la sua riduzione insegnata da Lee Strasberg all’Actors Studio. E tutti quei pupazzi ripieni che gli saltellano intorno! e con la più brutta faccia di Cossiga e il suo inedito antifascismo di golpista, e con la già brutta faccia di Andreotti (e in più la gobba) presa in prestito da Sorrentino – poi il pupazzo di Papa Paolo VI con la faccia di gomma dura di Servillo (sempre quella; sempre la stessa in salsa sorrentina). Un film tutto pensato dentro una simbologia così esasperata da finire per perderne il simbolo persino dentro la tasca dei pantaloni, e le tasche non sono affatto bucate: basti guardare il manifesto del film per averne contezza. Bastano gli occhi per vedere fino a guardare la bruttezza di questo film. Di questo B-Movie frutto della più sciocca semplificazione. Semplicistico.
Questo film è il trionfo della banalità dell’enfatico, dal principio alla fine; ma la cosa più fastidiosa è il fatto di disegnare tutti i membri della Democrazia Cristiana come degli sprovveduti in preda agli eventi, tutto santini e rosario, quando è stato vero l’esatto contrario: gli eventi di questo Paese sono stati preda per cinquant’anni della Democrazia Cristiana, che non aveva nessuna intenzione di liberare Aldo Moro, vale a dire di vivere la Rivoluzione del suo proprio suicidio.
MASSIMO RIDOLFI