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CINEMA: FRANK SINATRA E JOHNNY FONTANE


Cultura  | 29 November 2023

Una delle scene più indelebili della storia del cinema è quella della testa di cavallo mozzata ne Il Padrino di Francis Ford Coppola, 1972. Quella era una vera testa di cavallo, recuperata in un fabbrica di cibo per cani del New Jersey, che era a portata di mano perché almeno metà del film fu ambientato a New York City. Coppola, dopo aver più volte provato a girare quella scena con una finta testa di cavallo senza ottenere l’effetto che desiderava, decise, nascostamente dall’attore, John Marley, di raggiungere il realismo che stava ricercando infilando sotto le coperte una vera testa di cavallo, che si noterà non essere affatto quella dello stallone mostrato in precedenza nel film.

La scena è l’epilogo causato dal fatto che il produttore Jack Woltz (John Marley) rifiuta di dare la parte da protagonista del film che andrà a girare a Johnny Fontane (Al Martino), figlioccio di Don Vito Corleone (Marlon Brando) che cercava così di rifarsi una carriera nel cinema. Il rifiuto costerà a Woltz la decapitazione di Khartoum, il suo amato purosangue acquistato a scopi riproduttivi per 600.000 dollari, testa che Don Vito gli farà trovare al risveglio dentro il suo letto. E Johnny Fontane avrà così la sua parte.

Ma a proposito di questo episodio del capolavoro di Coppola, c’è da dire più che mai che la realtà, malgrado gli straordinari sceneggiatori americani, supera sempre la fantasia, perché il tutto fu ispirato ai fatti, più o meno accertati, più o meno sottaciuti, che riportarono sul grande schermo Frank Sinatra, che voleva a tutti i costi la parte del soldato Angelo Maggio nel film Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, accanto a Deborah Kerr, Burt Lancaster e Montgomery Clift. Una parte invero da coprotagonista in un film tragico-sentimentale che ruota intorno all’attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Film che ebbe un enorme successo aggiudicandosi ben 8 premi oscar, tra i quali quello di Migliore attore non protagonista assegnato proprio a Frank Sinatra, che riuscì così a rilanciarsi nel mondo del cinema, dove conta stare, dove restano solo le grandi star: da sempre in America tutti gli artisti puntano a Hollywood, perché si diventa una vera star dello spettacolo solo sul grande schermo, come fu anche il sogno di Elvis Presley, nonostante il clamoroso successo già acquisito pure lui come cantante, e ben maggiore di quello di Sinatra. Ma chi fu il Don Vito Corleone che, però nella realtà, aiutò Sinatra ad avere la parte di Angelo Maggio in Da qui all’eternità Fu John Roselli (nato Filippo Sacco, Esperia, Lazio, il 4 luglio 1905), un prestanome della mafia di Chicago che rappresentava gli interessi della cosca a Hollywood e a Las Vegas. Difatti, successivamente, molti furono i concerti che Sinatra diede nei casinò di Las Vegas gestiti dalla mafia statunitense, che si pensa fossero la contropartita al favore ricevuto. Ma sono accertati e documentati in una lunga indagine del FBI i suoi legami con la famiglia Gambino di New York, e con Don Carlo Gambino, Il Boss, tra gli anni ’60 e ‘70 il reale padrino della mafia statunitense.

In ogni modo, come sia andata sia andata, Sinatra tornò in pompa magna sul grande schermo e nel film di Zinnemann offrì davvero la sua migliore interpretazione, che, come detto, gli valse l’unico vero Oscar della carriera (gli altri due, quelli del 1946 e del 1971, furono dei riconoscimenti onorari), meritatissimo. Infatti, nel 1955 Otto Preminger gli offrì la parte del protagonista in L’uomo dal braccio d’oro (liberamente disponibile su YouTube) al fianco di Kim Novak (Vertigo - La donna che visse due volte, regia di Alfred Hitchcock, 1958). Sinatra interpreta la parte di un croupier di una bisca, tossicodipendente, di nome Frankie Machine (machine per la sua abilità nel dare le carte al tavolo verde come fosse una macchinetta automatica appunto, e dal braccio d’oro perché talmente abile da riuscire a barare a vantaggio del banco senza che mai nessuno se ne accorga), che lotta per disintossicarsi dall’eroina e sogna, appena uscito di galera, di rifarsi una vita come batterista jazz tenendosi lontano dal gioco d’azzardo clandestino e dall’eroina: le note stampa dell’epoca parlano di morfina ma in quegli anni a esplodere fu il consumo di eroina, immessa sul mercato come fermano già a inizio secolo per curare la dipendenza da morfina. Ma accadde che nel 1925 negli Stati Uniti l’eroina fu dichiarata illegale lasciando sulla strada milioni di tossicodipendenti senza più la facile dose quotidiana da prendere in farmacia, cosa che ovviamente favorì il mercato clandestino e la malavita, proprio come avviene tuttora.

Il tema della tossicodipendenza negli anni ‘50 era cogente negli Stati Uniti d’America: basti pensare che nel 1953 arrivò nelle librerie americane Junkie: Confessions of an Unredeemed Drug Addict di William S. Burroughs che rese pubblici la realtà del tossicodipendente e il suo gergo, come quando si descrive figurativamente il periodo di astinenza dicendo di avere La scimmia sulla schiena: di quel mondo ai margini della società tutto fu registrato e nominato in questo libro, senza edulcoranti. Il successo della pubblicazione fu immediato e l’editore, l’Ace Books di New York City, nel primo anno ne vendette 113.000 copie del libro. Il gergo del tossico testimoniato ed elaborato in presa diretta da Burroughs nel libro divenne rapidamente di senso comune ed entrò direttamente nella sceneggiatura de L’uomo dal braccio d’oro, anche se il film in realtà fu tratto dal romanzo omonimo di Nelson Algren, del 1950. E anche il voler trovare una speranza di emancipazione per Frankie Machine nel mondo del Jazz professionistico non fu una scelta drammaturgica casuale, perché fu proprio in quel mondo che già si contavano in quegli anni le prime vittime della droga tra le star della musica: Charlie Parker, dopo anni di dipendenza da eroina, morì il 12 marzo del ‘55, a soli 34 anni: il film di Preminger uscirà nelle sale il 15 dicembre. Come è di Elmer Bernstein la colonna sonora, la prima composizione jazz scritta appositamente per un film. Il film fu un grande successo, apprezzato molto anche per il suo impegno civile e per il realismo con il quale si riteneva riportasse la vicenda e il tema della tossicodipendenza.

Il film inizia con il protagonista che ritorna in bus dentro una Chicago posticcia (nella prima sequenza, in alto a sinistra, si intravedono addirittura le lampade che illuminano lo stabilimento cinematografico, il capannone proprio) armato di belle speranze e di una batteria nuova di zecca. Frankie Machine cerca di tenersi alla larga dal vizio e dalle cattive compagnie ma, inevitabilmente, ci ricasca perché lo sperato riscatto musicale è lungo ad arrivare e il suo telefono squilla troppo tardi l’attesa riscossa e, come scrive lo stesso Burroughs nel suo libro, “You become a narcotics addict because you do not have strong motivations in any other direction. Junk wins by default. - Diventi tossicodipendente perché non hai forti motivazioni in nessun’altra direzione. La scimmia vince automaticamente.”1

Ma, ahimè, di là dell’inesorabile scorrere del tempo e delle maggiori possibilità tecniche attuali, questo film è tutt’altro che riuscito, ora come allora, perché tratta il tema della tossicodipendenza con superficialità ed enfasi, dimostrandosi didascalico per fragilità di sceneggiatura, regia e interpretazione: le peggiori scene del film sono proprio quelle che vorrebbero riprodurre il dramma di avere La scimmia sulla schiena, vale a dire il periodo di forzata astinenza di Frankie Machine che cerca di liberarsi dall’eroina. È tanto grossolano, gigionesco, sbagliato questo film da non riuscire a credere oggi al successo che raccolse alla sua uscita, probabilmente più dovuto al tema trattato, sostanzialmente all’epoca ancora inedito sul grande schermo, che al suo reale esito, eppure ha ispirato tantissimi film successivi, come Amore tossico del Nostro Claudio Caligari, 1983 – un altro concreto disastro cinematografico, però, più realistico.

L’arte cinematografica è la più vulnerabile all’inesorabile scorrere del tempo, e quando si sbaglia un film, resta sbagliato per sempre.

MASSIMO RIDOLFI

1. da una versione in lingua italiana di Massimo Ridolfi.

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