L’Ossezia del Nord è un lembo di terra del grande puzzle della Federazione Russa. Si trova a sud, ai confini con la Georgia. È una regione più piccola dell’Abruzzo ma ricca di giacimenti minerari, soprattutto nella città di Mizur, stretta tra le gole del Caucaso.
È qui che vivono una giovane donna, Adazda (Ada, Milana Aguzarova), l’inseparabile fratello minore Dakko (Khetag Bibilov), al quale è costretta a fare anche un po’ da madre pure se poco più piccolo di lei, e il loro padre e padrone Zaur (Alik Karaev); mentre il figlio più grande, Akim (Soslan Khugaev), è andato a cercare fortuna lontano dalle polverose miniere del Caucaso e si è stabilito a Rostov, una vera città dove succedono tante cose, e non ha nessuna intenzione di tornare indietro. La loro madre è morta e Adazda deve provvedere a tutto quello che c’è da fare in casa, accollandosi il freddo focolare domestico come un destino ineluttabile ma al quale vorrebbe sfuggire confidando sulla complicità di Akim.
La famiglia di Zaur è parte della minoranza islamica della città, dove la femmina è proprietà del maschio. Per questo Adazda è costretta a rinunciare alle lusinghe di ragazzi e cosmetici, e ai capelli lunghi, che solo tagliati corti il padre le permette di portarli al sole e al vento del Caucaso – quando apre la porta di casa chiusa a chiave, di cui ha solo lui le chiavi, per accompagnarla con la sua scassata Lada Niva turchese pastello a lavorare in un piccolissimo alimentari frequentato soprattutto da bambini.
Questo film (disponibile in lingua originale su RaiPlay) della giovane regista russa Kira Kovalenko – artista dal talento registico e di scrittura (racconta che questo film le è stato ispirato dalla lettura di William Faulkner) cristallino, certamente maturato dopo migliaia di chilometri di pellicola occidentale passata davanti ai suoi occhi castani – ha quella atroce bellezza che il cinema italiano ha perduto da tempo, che non cerca neanche più – escludendo forse Edoardo De Angelis e anche, in parte, Matteo Garrone –, così come è ridotto il nostro cinematografo a un dozzinale romanesco assunto a lingua nazionale; bellezza che in Europa si può ancora rintracciare nel cinema dei fratelli Dardenne, e, oltreoceano, in certo ancora prezioso cinema indipendente americano (Boys don’t cry, 1999, della statunitense Kimberly Peirce ad esempio, per non scomodare la intramontabile e iniziatica Lezione di John Cassavetes). La Kovalenko è autrice e sceneggiatrice di due film, Ada appunto, del 2021, e Sofichka, del 2016, sempre ambientato nel Caucaso meridionale dove racconta le vicende di due innamorati sospesi sulla tragedia della Seconda guerra mondiale. E la regista russa non si perde in operazioni intellettualistiche ma compie un chiaro atto politico in questi suoi primi lavori, perché sceglie di raccontarci la sua terra d’origine, nata a Nal’čik il 12 dicembre del 1989, e non cerca certo ispirazioni in luoghi che non conosce, che non sa: insomma, non perde tempo ed energie a inventare mondi, ed è grazie a questa scelta, che è anche estetica etica e morale, che con questo suo secondo lavoro si è aggiudicata il Premio Un Certain Regard a Cannes.
Fermarsi a guardare chi abbiamo accanto per raccontarlo a chi non c’era, è l’atto più rivoluzionario che ci sia.
MASSIMO RIDOLFI