l'architettura organizza lo spazio
e nello stesso tempo lo limita
Proprio una settimana fa rivedevo Tre Piani (2021) in preparazione di questa recensione e a chi mi chiedeva se fosse Moretti un buon regista, rispondevo che non lo è affatto, però è un autore.
Ecco, qui bisogna fare subito una precisazione. Moretti non è un buon regista perché esteticamente i suoi film sono molto dozzinali, nell'utilizzo della macchina da presa, nella fotografia, nella messa in scena, nella recitazione ad esempio; e per questi motivi invecchiano nel loro aspetto molto rapidamente appunto perché hanno una produzione quasi amatoriale, vicino all'amatoriale, ed è un germe che infesta un po' tutto il cinema italiano dagli anni '80 al 2000 sicuramente, fatto ulteriormente aggravato dall'avvento del colore, che necessita una conoscenza dell'arte della ripresa cinematografica (che è fotografia in movimento) molto più importante rispetto al bianco e nero, che è sempre un po' ruffiano – il primo e l'unico a rendere giustizia all'utilizzo del colore nel cinema italiano è stato Michelangelo Antonioni con il suo Il Deserto Rosso (1964), grazie al Maestro Carlo Di Palma, che collaborava con il cineasta ferrarese per la prima volta: difatti questo di Antonioni più che un film è da considerarsi come il primo e più importante saggio sull'utilizzo del colore al cinema. Insomma, quando si vede un film di Nanni Moretti si ha sempre come l'impressione di guardare un telefilm della RAI a RAI 1. Però, è autore. Questo significa che la sua presenza è imprescindibile nei propri film, e ciò li caratterizza e, nel contempo, ne giustifica totalmente l'opera: per presenza qui si intende onestà intellettuale, che significa che Nanni Moretti non si finge di essere quello che non è e fa quello che può con fedeltà alla sua posizione politica, vale a dire al suo stare al mondo; di conseguenza manca anche la minima funzione attoriale perché in questo genere di film, come già detto, è immancabile solo la presenza dietro e davanti alla macchina da presa dell'autore, perciò non necessita nessun attore, volenti o nolenti. Allora è utile ricordare quanto ebbe a dire Dino Risi a proposito del modo di fare film di Nanni Moretti: "Ogni volta che assisto a un film di Nanni Moretti mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film!" una battuta passata alla Storia del cinema.
Sono certo – anche se non ho memoria di sue affermazioni in merito – che tutto il cinema di Nanni Moretti trae ispirazione dall'opera di Woody Allen, perché mi appare evidente l'analogia tra i due registi per come rappresentano se stessi e i propri luoghi nelle loro pellicole: Allen:Moretti = New York:Roma. Ma Allen riesce, a differenza di Moretti, a essere un grande autore e un’ancora più grande regista. Ecco, Moretti compromette tutta la sua regia nel suo mettersi troppo in mezzo, posizione che lo fa autore appunto, da sempre e banalmente contro il sistema cinematografico italiano, come registrato già in principio in una storica puntata di Match del '77 con davanti Mario Monicelli, allora di fronte a un Moretti spocchiosissimo – è molto diverso ora, a quasi settant'anni, quando ogni sognato avvenire è irrimediabilmente sbiadito –: allora era un giovane regista esordiente di soli 24 anni, capellone baffuto e occhialuto, che portava con sé solo certezze. Io sono un autarchico (1976) era in quel momento il suo primo e unico film all'attivo, un esordio però che accese i riflettori su questo ragazzo romano che parlava – la logorrea è un'altra caratteristica del modo morettiano – della piccola borghesia della Roma sinistra armato solo di Super 8, che solamente un anno più tardi da questo suo match con Monicelli pretenderà di liquidare la Commedia all'italiana con la ormai storica battuta contenuta in Ecce bombo (1978): "Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!" Ma Moretti, suo malgrado, non ha fatto altro che, a suo modo, della Commedia all'italiana – pur sognando intensamente il modo della Nouvelle vague –, che Monicelli insegna essere questa cosa qui: "La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la Commedia all'italiana da tutte le altre commedie..." ch'è la ricetta dei suoi capolavori.
Ma ritengo che sia importante osservare criticamente – che vuol qui significare studiarla – l'opera cinematografica di Nanni Moretti perché segna in origine una via tutta nostrana al cinema indipendente italiano, spinta irredentista che trova vicinanza in Europa con il Nuovo cinema tedesco, come si potrebbe registrare soprattutto nel lavoro iniziale di Wim Wenders (77). E poi ho imparato ad amare Nanni Moretti da almeno trent'anni, cioè da quando ho superato i miei preconcetti sul peso dichiaratamente ideologico dei suoi film, che arrivano fino alla confezione didascalica di una sorta di manifesto cinematografico, denunciando però da sempre quella tipica irrequietezza della sinistra italiana, piena di tic, di nevrosi protagoniste; un manifesto che, però, non ha generato nessuna scuola di partito cinematografico, nessuna lezione da imparare, nessun allievo insomma, perché non c'è alcun Maestro da seguire, e questo forse è un bene, e resta, appunto, solo, spoglio, l'autore.
Quindi martedì 2 maggio arrivo carico di buone intenzioni al Cinema Smeraldo di Teramo per assistere alla proiezione delle 17:30 de Il sol dell'avvenire (2023). Come mio solito prendo posto nelle poltrone più in alto, quelle che non sceglie mai nessuno preferendo tutti le sedute centrali. Da qui conto dieci teste sotto di me, e mi rendo conto solo adesso che è la prima volta che rientro in una sala cinematografica dopo la pandemia - sì, c'è stata una pandemia anche se sembra oramai dimenticata.
Ecco, già da subito si può dire che questo ultimo lavoro di Nanni Moretti si risintonizza sulle frequenze di Caro diario (1993), che considero il suo capolavoro d'autore, sicuramente insuperato, dove attraverso la sua propria biografia riesce nel magistrale racconto di questo Paese. E quindi immaginiamolo dentro i suoi maglioni slabbrati, le camice di lana a quadri, i pantaloni di velluto a larghe coste e i giacconi beige o blue uno più brutto dell'altro, e tutto di almeno due taglie in più, e invecchiato, invecchiato bene e sopravvissuto con caparbietà a quasi due tumori del sangue, ma che qui ritroviamo depresso, bipolare per obblighi di sceneggiatura. E poi Fellini, l'intramontabile Kieślowski, il pallone da prendere a calci, l'acqua da nuotare avanti e indietro.
C'è un mio testo – sicuramente quello più fortunato – che comincia in preludio con questi due versi: "ti ricordi quei ragazzi di ungheria / spregevoli provocatori / di quel tormento autocritico" che rammentano quanto disse Giorgio Napolitano a proposito della rivolta d'Ungheria del '56, quando il popolo magiaro si ribellò al regime sovietico, U.R.S.S. che allo scopo di soffocarla portò i carri armati dell'Armata Rossa sulle strade di Budapest per ordine di Nikita Chruščëv, che così aprì la nuova era poststalinista seminando sulla terra ungherese 2652 morti. Giorgio Napolitano, che all'epoca era un giovane di 31 anni e colui che curava i rapporti internazionali del P.C.I. con l'Unione Sovietica e gli altri paesi del Patto di Varsavia, riteneva, in ossequio a Palmiro Togliatti, che i rivoltosi ungheresi fossero dei volgari provocatori e che l'intervento sovietico salvasse la pace del mondo: tragicomica fu la posizione del P.C.I., con Togliatti che affermò: "Si sta con la propria parte anche quando sbaglia." La posizione del P.S.I. invece fu di piena condanna dell'invasione russa, tanto che Pietro Nenni arrivò a riconsegnare il prestigioso Premio Lenin, all’epoca ancora Premio Stalin.
Ed è proprio dal momento più buio della storia del Partito Comunista Italiano che il film di Nanni Moretti prende l'avvio tentando un ardito ma malriuscito parallelismo revisionista tra passato e presente, come se tutti i guai che hanno portato alla rovina comunista italica, al P.D. di oggi, siano stati la causa scatenante del deterioramento del nostro Paese, come se in Italia esistesse solo il Partito Comunista Italiano, fatti che oggi ci appaiono come un periodo preistorico della nostra Repubblica. Quello fu un errore dei tempi, un atto di guerra fredda, fisiologico, forse inevitabile se si voleva giustificare l'esistenza stessa di un partito davvero comunista in Italia, che non poteva concepirsi se non in chiave filosovietica: lo sfacelo del P.C.I. invece comincia molto tempo dopo, e precisamente il 28 giugno 1977, cioè con quella stretta di mano tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro, che sancirono così l'inizio del mercimonio, la nascostamente accordata equa spartizione del potere tra comunisti e democratici cristiani.
Ma, per tornare e restare su un piano prettamente artistico, i pensieri di Giovanni ci accomunano ma non riescono mai ad affrancarsi verso una sublimazione che sia davvero artistica rimanendo semplicistiche didascalie, concetti spuri, da bar, lasciando accadere tutta la banalità del nostro vivere comune senza sorprenderci, pur insistendo Giovanni per tutto il film il suo stupore perché ritrovatosi dentro a un mondo che non riconosce più ma che sappiamo bene tutti quanti.
E cerca salvamento e alleanza in Corrado Augias, in Chiara Valerio, in chiunque il basso popolino di sinistra guardi con speranza, con stupidità. Lacerti di una sinistra benpensante che spende tutta la sua residua esistenza a tentare di dirla giusta al momento giusto, di essere rassicurante, buonista. E giustamente Martin Scorsese non gli risponde e manco lo richiama a Giovanni.
Ma il fatto tecnicamente più grave è che, purtroppo, si procede a scatti in questo film, per quadri; e si scatta da una didascalia all'altra, da una canzonetta all'altra, da un'auto all'altra.
Tutto un film fatto così e dove si intravede un risvolto interessante solo nel finale, quando l'idea della vita trionfa sulla morte, quando invece Togliatti e compagni scelsero la morte ideologica e Berlinguer, più tardi, il suicidio politico.
Il cinema di Nanni Moretti è una architettura che organizza lo spazio e nello stesso tempo lo limita, delimitando così il suo avvenire.
Nanni è il suo avvenire.
MASSIMO RIDOLFI