Federico Fellini raccontava, con la sua solita aria divertita e canzonatoria, di come spesso rimanesse stupito di quello che i critici scrivevano dei suoi film, soprattutto celebrandolo, perché gli dicevano di cose che neanche lui sapeva, che proprio non si era accorto ci fossero nei suoi film, e che non aveva avuto nessuna intenzione di ficcarci dentro. Il suo fare cinema era, innanzitutto, un fare del divertimento, sdrammatizzante, da saltimbanco, da circo Orfei: l'arte, la poesia, è una cosa che accade – se accadesse – nel mentre del fare.
Nonostante la rete oggi ci offra, seppure soffocata da tanta porcheria, la possibilità di informarci subito per affrontare ogni genere di questione, la critica letteraria italiana pare ancora accartocciata su se stessa, piegata su vecchie scartoffie polverose, cocciuta delle proprie convinzioni di comodo, arrivando ad attribuirle ad altri, facendone strumenti critici, sbagliando miseramente, fino ad affogare nel proprio io.
È ciò che è successo nel susseguirsi in questi giorni di articoli, tutti celebrativi, sulla figura di Cormac McCarthy, che raramente riescono nella messa a fuoco dell'opera e del personaggio.
Ma è probabilmente vero che ogni scrittore non faccia altro che scrivere il proprio personale Vangelo.
MASSIMO RIDOLFI
La topica più imbarazzante è stata compiuta da certa critica cattolica che ci ha proposto il ricordo di un McCarthy religioso, biblico addirittura, che nel suo scrivere si sia sempre lanciato nella ricerca di Dio, concetto ricavato partendo dal testo, certo, ma facendo leva sul fatto che l'autore provenisse da una famiglia cattolica irlandese, che lo aveva fatto studiare in una scuola cattolica a Knoxville, Tennessee, che certamente ha servito la messa come chierichetto, che certamente ha avuto una educazione cattolica, ma McCarthy è stato sempre un irregolare, un anarchico per indole, che in età adulta della sua educazione cattolica non se ne è fatto proprio niente, e tanto meno era praticante, con buona pace della critica di stampo cattolico: molto più dell'educazione cattolica hanno inciso nella formazione dell'autore il razzismo e la povertà che vedeva intorno a lui a Knoxville.
Se la critica italiana avesse osservato meglio e al di fuori delle proprie convinzioni di partito, si sarebbe accorta che Cormac McCarthy era agnostico, non credeva in Dio, non credeva neanche nella letteratura e tanto meno nella poesia e nei poeti, che rimproverava di non dire mai netto come la pensassero, sempre riparati dietro la metafora: si sarebbero accorti che McCarthy era uno scientista e materialista storico, che riteneva la letteratura scientifica molto più interessante di quella d'arte, nonché l'unica cosa davvero utile all'uomo, l’unica sua salvezza.
È emblematico cosa risponde nella sua ultima intervista alla domanda che Lawrence M. Krauss, fisico – si guardava bene dal frequentare letterati, che detestava, e di discutere dei suoi libri, e non aveva certamente torto considerato che i libri sono scritti per essere letti e non per essere chiacchierati –, gli pone chiedendogli di Dio e di evoluzione, a proposito di questo suo presunto portato religioso, biblico, che sarebbe rintracciabile nei suoi libri, dentro la sua scrittura, cui replica, stizzito: “Questo è quello che dicono i mie personaggi, non sono io che lo dico.” affermazione che contiene in sé una verità e una grande lezione su cosa sia la letteratura.
Cormac McCarthy era vero nel suo raro presentarsi al mondo e quindi scomodo, privo di maniglie, scivoloso, non riducibile alla bisogna, e scriveva storie di cowboy, e solo questo gli interessava raccontare. E poi ci metteva il punto.
Ma è probabilmente vero che ogni scrittore non faccia altro che scrivere il proprio personale Vangelo.
MASSIMO RIDOLFI