L’angoscia è la catastrofe dell’ordine simbolico che è imploso. La privatizzazione dell’io è l’ultima ideologia che resiste nel vuoto pneumatico dell’implosione dell’ordine simbolico, l’inverno economico nucleare, con i suoi addendi. In questa nebbia della ragione può benissimo un presidente degli Stati Uniti parlare come Don Corleone.
Ho scritto di recente ad un autore di poesia che mi chiedeva da dove iniziare per riformare il proprio linguaggio poetico:
“Le idee sono gratis, tutto il resto si compra”.
Poesia essenziale la poetry kitchen che sa di Tranströmer ripassato in gelatina in cucina, togliendo il suo abito dal frigo con i residui bottoni di madreperla per sostituirli con quelli in plastica.
L’Ombra delle Parole è nato nel 2013. All’inizio era un blog generalista che cercava la propria strada di uscita dal novecento epigonico e agonico. La compagnia era la più varia. Nel frattempo alcuni si sono dileguati per motivi personalistici e posiziocentrici, probabilmente erano più interessati alla propria visibilità che alla costruzione di una poetica… però, però senza una poetica non si va da nessuna altra parte, io l’ho scritto varie volte ma, si sa, il narcisismo è una droga più forte di qualsiasi ragione.
Nel 2014 iniziai a parlare di «Grande Progetto». E lì qualcuno si allarmò e si dileguò. Negli anni seguenti la rivista si impegnò a creare le coordinate teoriche della NOe (la nuova ontologia estetica) in modo sempre più radicale e convinto (infatti altri aderenti si allontanarono), nel frattempo altre persone si erano avvicinate intravvedendo nella nostra direzione qualcosa degno di essere approfondito. Qualcosa di nuovo stava nascendo. Nel frattempo, negli anni che vanno dal 2018 ad oggi, la si è configurata come l’espressione più innovativa della poesia italiana e una novità anche in Europa che io sappia, ad eccezione della nuova poesia ceca che aveva iniziato con 20 anni di anticipo rispetto a noi. Che dire? Occorrerà cominciare ad interrogarsi seriamente sulla fattibilità di un’arte critica nel periodo della fine del postmoderno e della crisi del capitalismo globale.
Una poesia di Giorgio Linguaglossa
Il Signore con la redingote catarifrangente
Il Signore con la redingote catarifrangente salì sul palco allo Speaker’s Corner di Hyde Park di Londra dove ha tenuto questo discorso:
I parlamentari sono invitati a radersi la barba prima di mettersi la cravatta
E prima di entrare nell’emiciclo
Non come quell’odioso Odisseo che scambia le alghe per delle trote siamesi e l’aceto di neve per del chewing gum
Adesso poi si rimprovera all’ascensore finanche di mettersi in moto quando si preme il pulsante!
In tutto questo frangente, dei marziani con i berretti verdi sbarcati nel Luna Park dell’Eur hanno dichiarato che Polipharma è la sorella di Polifemo e che Glucosio è il fratello siamese di Lattosio
Avvenne però che dal cielo scese una pioggia di cadmio che coprì i dischi volanti, i palazzi, le aiuole e anche gli uccellini canterini…
I giornali scrissero che Edipo era stato sostituito da Vivian Lamarque e dalla Santanchè e che l’elettrone sparato dal revolver del commissario Ingravallo è andato a sbattere contro il cratere di Trimalcione posizionato nel romanzo di Petronio arbitro, il “Satyricon”, nel mentre che guidava le danze, «Ma quello sa di anfibio e di unto ed ha un pessimo alito!», gridò Ascilto il quale si diede alla fuga insieme al muliebre Aristogitone che era alle prese con la virilità di Ascilto e con il cuoco di Biden
Una scatoletta di tonno con degli asparagi si posò sul tavolo del poeta elegiaco di Mediolanum, un certo Mimnermo, il quale così commentò gli eventi:
«Chi mi ama, mi segua!»
Detto fatto, ci fu una gran confusione, il poeta latino litigò con il critico Linguaglossa, dei turisti giapponesi presero alla lettera il discorsetto di Prigozhin e si rifugiarono nel Nagorno Karabakh da dove salirono al cielo afferrandosi per la coda e si misero a far scoppiare i palloncini di plastica che avevano con sé pungendoli con le corna di un rinoceronte
Intervennero dei deltaplani dai quali sortirono fuori dei soldati in mimetica, forse russi, che se l’erano dati a gambe dal Donbass… strano, erano armati di cavabottiglie e gridavano che un tetracottero aveva abbattuto un quadricottero ucraino… ma la cosa finì in tribunale e in seguito il reato cadde in prescrizione
Ci fu un parapiglia: Ingravallo querelò la Melona, il Principe di Salina ingravidò la presentatrice del tiggì della 7 (sette), Tex Willer sparò un colpo con la rivoltella di Madame Colasson, Ascilto sbagliò romanzo ed entrò nelle “Cosmicomiche” di Calvino…
Ma tutto ciò sono solo quisquilie, non è vero, credetemi, sono solo fole della poetry kitchen, continuate a manducare vitel tonné, asparagi e deglutite Dom Perignon!
Una poesia di Francesco Paolo Intini
Spyke di fine settembre
Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
– Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.
Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi
Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
– Io non sono Antigone – ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.
L’inizio della poesia di Intini sia analogo allo stappo di una bottiglia di spumante l’ultimo dell’anno o l’analogo di un colpo apoplettico che ti fa girare la testa e te la lascia con la sensazione di vuoto:
Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
Un attacco tutto in verticale, violentissimo, tutto in salita, tra il derisorio, il farsesco e la hilarotragoedia che culmina in un verso brevissimo e risolutorio “Gnam!”, che sta ad indicare la simultaneità e l’efferatezza del sogno (come i sogni dei santi, dopo i quali fanno miracoli). Ma la poesia di Intini non promette miracoli, promette, anzi favorisce l’ingresso dei saltimbanchi e dei clown con tanto di pesticidi e sberleffi… c’è tutto un sottotesto che schiumeggia in modalità derisoria e kitchen per poi esaurirsi nel “nulla che sopravvisse nelle scatolette di tonno” del terzo verso, che io trovo magnifico, davvero triviale, tra il dileggioso e il burlesque come solo Intini sa fare. L’incipit è, a mio avviso, davvero magnifico, glielo avrei volentieri trafugato. C’è la procedura tipica della modalità kitchen che consente ad Edipo di farsi sloggiare dalla Signora Lamarque, Intini è un maestro del derisorio e del triviale messi in panni appena presentabili.
Certo, se tu leggi la poesia di Intini avendo in mente l’elegia della Anedda, individuerai tra le commessure dei versi, degli errori di manifattura, ma quelli ci sono perché la modalità kitchen non contempla un testo finito e rifinito come una poesia di Sandro Penna, ma lo considera un manufatto ancora pregno di scorie e di incrostazioni della strada, risente delle interferenze, anzi, è tutto fatto di interferenze e di rumori e di piccole mine anti-uomo che l’autore disperde tra le pieghe dei versi, in specie dopo gli enjambement che vengono impiegati sempre per aumentare l’effetto derisorio e auto derisorio tra il Totò e Buster Keaton.
La parte centrale del componimento è un vero e proprio sopralluogo del triviale travestito in abito fumo di Londra:
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
– Io non sono Antigone – ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
Per contro, il componimento dopo aver sbattuto di qua e di là come una pallina da flipper, il finale dicevo è come uno zinale che copre la gonna inzaccherata della massaia che sta in cucina, tutto imbrattato dei residui della cottura del cibo. Quel cucinamento del “rospo all’amatriciana” è uno schiaffo al gusto del pubblico educato alla poesia degli epigoni della Anedda. Intini non lancia mai le sue parole a caso, non conosce il principio del risparmio delle munizioni che un buon soldato dovrebbe seguire, lui ci mette del suo, accatasta versi derisori sopra altri versi auto derisori e così ci fabbrica quella cosa che repelle al gusto gentile dei salotti della buona letteratura alla Vivian Lamarque.
Che altro dire?, il finale poi lo trovo rocambolesco e burlesco insieme, sardonico, sa di rifrittura, puzza di pessima margarina impiegata al posto del burro e dell’olio extravergine di oliva:
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.
Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere a-significanti e inoperose.
Gli autori della poesia maggioritaria di oggi, ad esempio, Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno.
L’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato; questi autori fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.
Il fatto è che oggi parlare di “autenticità”, di “centricità” dell’io, di “identità”, di “soggetto”, di “riconoscibilità”, di “originari età” della scrittura poetica implica un ribaltamento critico: porre al centro dell’attenzione la questione di un’altra “rappresentazione”, di un “nuovo paradigma”, di una “nuova forma-poesia”. Il discorso poetico della nuova ontologia estetica passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo novecento incentrato sul dolorificio permanente dell’io egolalico ed elegiaco e su una “forma-poesia riconoscibile”. Il capitalismo cognitivo dell’epoca postglobalistica, in crisi di identità e di accumulazione, genera ovunque normologia e riconoscibilità; quello che invece occorre è l’“irriconoscibilità”, una poiesis critica che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica.
È che il vuoto ce l’abbiamo nel linguaggio, fuori del linguaggio, di fronte a noi ed è dentro di noi, dentro gli oggetti, è nel soggetto e nell’oggetto, specularmente. E allora, quale sguardo impostare?, quale esperienza?, con quale linguaggio? Il problema di ogni giudizio o rappresentazione è che si tratta di cose che derivano da una posizione frontale (kantiana). L’io, il soggetto metafisico che osserva l’oggetto è una finzione perché il soggetto è sempre parte e “limite del mondo, non si può staccare il soggetto dall’oggetto come un francobollo da una busta”. Fare una poesia o romanzo rappresentativi presuppone sicuramente un soggetto plenipotenziario, una ideologia narcisistica, egoriferita, ombelicale ovunque poi cada la rappresentazione, se nella storia o nella storialità, nell’ipoverità o nella iperverità o nella perversione del Collasso del Simbolico. Nel Collasso del Simbolico non c’è una «mente» che possa tenere insieme i membra disiecta. È che non ci resta che una auto educazione alla lateralità, alla disfunzionalità del linguaggio, del soggetto che lo agisce e del soggetto che viene agito e etero agito; occorre la formattazione della antica ottica per una nuova che sdipani i fili di quel che si è fittiziamente e fattiziamente fattualizzato dall’io auto riferito ponendo però attenzione alla dis-attenzione, a quel che, di volta in volta, è andato smarrito, centrifugato e dissolto nel Collasso dei linguaggi e delle visioni.
Il “cogito ergo sum” di cartesiana memoria è stato rovesciato da Lacan nel monito “penso dove non sono, dunque sono dove non penso”: il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare e a-centrica della rappresentazione del soggetto “a-centrico” (per usare una dizione di Enrico Castelli Gattinara) non ha avuto seguito nella produzione poetica e romanzesca italiane (fatta eccezione per Calvino), dunque, la rivoluzione copernicana iniziata da Freud deve essere portata a compimento anche nel cassetto della poesia italiana ancora immobilizzata ad una visione “centrica” della soggettualità.
Il linguaggio non è la sede del trauma, è il trauma che buca il linguaggio; il trauma obbliga il soggetto a “perdere” la cosa e a “bucare” la rappresentazione. Questo è il passaggio fondamentale: il momento in cui si struttura la soggettività per la rappresentazione è il medesimo momento in cui si struttura il linguaggio. Da questo momento in poi quando entriamo nel linguaggio “perdiamo” la Cosa e trattiamo con i suoi sostituti: le “parole” delle “cose”, così le “parole” acquistano legittimazione comunitaria. Le parole del mondo collassato sono anch’esse attinte dal collasso. La modalità kitchen disconosce la “posizione centrica”, non c’è nessuna posizione che sia “centrica”, siamo tutti letteralizzati, prodotti di segni, scarti, sintomi che si incidono nel corpo. Non avrebbe senso dinanzi alle parole collassate del mondo collassato salvaguardare un “io” intonso, centrico, come affermano i poeti del modernariato. Le parole del mondo collassato sono posiziocentriche e ambigue, degradate ad utilitarietà in quanto convogliate nella comunicazione. Ma è che nell’universo a-centrico del mondo globalizzato non si danno centricità ma solo acentricità, eccentricità. Il “centro” che riposa sulla motorizzazione civile dell’io, è il prodotto di una refurtiva ideologica, un furto di intelligenza.
Pensare che vi sia una Exit strategy, una uscita di sicurezza gratuita dalla fine della metafisica attraverso una operazione di modernariato dei linguaggi è una pia illusione, un errore macroscopico. C’è sempre un dazio da pagare, altrimenti si va a comprare il soggetto “centrico” al mercato del pesce, in quella zona di indistinzione dove tutti i linguaggi sono fatti di enunciati standard, buoni per il revival, per il retake, per il modernariato del già stato.
A proposito del fenomeno degli enunciati standard di cui è fatto il linguaggio mediatico della nostra civiltà, ne posto alcuni enunciati che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web. Si tratta di alcuni esempi di messaggi neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato, formattato. Si tratta di un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente opportunista ed eterodiretto dall’Altro, che è diventato il Grande Altro, di cui la Intelligenza Artificiale Generativa è l’esempio ultimo più eclatante e rivoluzionario.
Esempi di enunciati standard:
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Il linguaggio poetico e narrativo funziona secondo l’efficienza anisotropica, mediante le modalità dell’entanglement e della interferenza tra i linguaggi del reale.
Così Treccani definisce la «anisotropia»:
“Proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica (velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc.) dipende dalla direzione che si considera. Fenomeni di anisotropia naturale si manifestano nelle sostanze allo stato cristallino e mesomorfico, ma non nelle sostanze amorfe; fenomeni di anisotropia artificiale possono prodursi in sostanze amorfe in conseguenza di determinate sollecitazioni: per es., un’anisotropia ottica, che si manifesta nel fenomeno della birifrazione, può insorgere in alcuni vetri e in alcuni liquidi in conseguenza di sollecitazioni meccaniche o dell’azione di un campo elettrico.”
L’assimilazione di questo genere di linguaggi in un testo filosofico, poetico e/o narrativo è un fenomeno del tutto “naturale” che si verifica in ogni istante della nostra vita di relazione. Ovviamente, in un testo poetico plurilingue e pluristile questi linguaggi vengono, per così dire, messi in vetrina, esposti alla visibilità, esposti alla verificazione e alla falsificazione, vengono cioè demistificati nei loro contenuti ipoveritativi e strumentali.
È per queste ragioni che, ad esempio, nei testi poetici della “nuova ontologia estetica” impieghiamo questo tipo di messaggi comunicazionali, per esporli nella loro nudità insieme ad altri messaggi dialetticamente contaminati, esporli nella loro falsa coscienza.
È per queste ragioni che questo genere di enunciati si possono rintracciare in gran quantità nella poetry kitchen di vari autori di oggi: Marie Laure Colasson, Giuseppe Talia, Vincenzo Petronelli, Giuseppe Gallo, Letizia Leone, Tiziana Antonilli, Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone e Gino Rago.
“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone”, ha scritto Philip K. Dick, talento visionario del romanzo fantascientifico.
L’epoca del Covid e dello stato di Guerra Permanente segna fine del post-moderno. Le parole imbruttite, le parole smargiasse e ipoveritative che pronunciano i politici e le massaie di Pordenone, le parole erranee dei filosofi italiani, le parole dei cabarettisti dei media e delle televisioni a pagamento pubblicitario, le parole pubblicitarie, le parole zambracche seminano una zizzania malefica e obbrobriosa. La Commedia della nuova ontologia estetica è appena agli inizi, appena agli indizi.
Ha scritto Umberto Eco:
L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.
Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.
Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta.
Ha scritto Francesco Paolo Intini:
Penso che il vuoto sia prima di tutto prodotto dalla società in cui muoviamo i nostri passi. Negli ultimi tempi si sono succeduti tre grossi avvenimenti che hanno svuotato la realtà storica di tutto ciò che si poteva considerare accadere nel senso di un progresso per l’intera umanità. Covid, guerra Russia\Ucraina e per ultimo l’epilogo della guerra perenne per il diritto di un popolo all’esistenza tra Palestina e Israele.
Le implicazioni e le estensioni di questi fatti e principi sono sotto gli occhi di tutti e minano da una parte la credibilità della scienza di rappresentarsi come l’unica arma capace di lavorare in favore della conservazione della specie e dall’altra la fiducia in valori universali capaci di contrastare la legge del più forte.
Che altro rimane? Beh, il senso di tutto questo è quello di una tendenza allo svuotamento generalizzato di valori compensato da una disponibilità di tecnologia e di merci in crescita esponenziale su tutti i fronti. Non c’è da meravigliarsi se a questo vi corrisponda un vuoto nel significato delle parole con le quali intendevamo gli altri e non c’è da meravigliarsi se all’interno di questo in cui conserviamo le merci e la tecnologia che le produce, le stesse aleggiano come fossero particelle estremamente rarefatte in cerca di qualcosa su cui poggiare.
Io credo che ci sia nelle parole, nel come le vedo nascere ed interagire con le altre per fare un verso, qualcosa che non assomiglia ad un bisogno di senso. Le vedo mentre dirottano le possibilità di significato verso il non senso, lo sberleffo, il derisorio, la caricatura, lo sfottò. Le vedo distruggere qualcosa che potrebbe risultare gradevole ad un orecchio abituato alla dolcezza del suono, del ritmo, della commozione etc. Sono parole che prendono spunto da ciò con cui vengono a contatto e cioè l’enormità del prodotto che chiamiamo merci per sabotarle, dissiparle e togliersi di dosso l’odore di denaro a costo di non farsi voler bene per il senso negato anche solo all’ultimo istante, all’ultima virgola.
Non è dunque una parola destinata a riscuotere facilmente like, approvazione, comprensione e successo. Specialmente nella composizione apparirà sempre precaria, malaticcia, clownesca, sul punto di fallire, togliersi il trucco e ricadere su sé stessa.
Roba da RSA dirà qualcuno, magari qualche ex amico allontanatosi perchè inorridito dalle conseguenze a cui è arrivata la sua stessa creatura. Ma che c’è da meravigliarsi? Tutto ciò che penso è che nell’attraversare il vuoto le parole risentano di un minor grado di attrazione da parte di altre parole e vengano fuori, per ciascuna di esse, possibilità inesplorate, sfaccettature che aprono tunnel e passaggi segreti evidenziabili solo quando sono allo stato di nudità assoluta.
La loro riaggregazione è un fatto inspiegabile con le normali leggi della sintassi poetica. Forse cercano qualcosa per poter essere riportate nel mondo macroscopico ma nessuno sa quando la tempesta che collassa i valori cesserà.
Ha scritto Evgenij Ivanovich Zamyatin (1884-1937), Note Books:
Se un aereo proveniente da qualche parte della stratosfera cadesse giù nel giro di due mesi, due mesi dopo – fine, ma il terzo – il quarto giorno di autunno, i passeggeri si abituerebbero, le signore inizierebbero a strofinarsi le labbra, gli uomini inizierebbero a radersi… Così il mondo intero ora, abituato a cadere, abituato al disastro…
Una poesia di Giorgio Linguaglossa
Un aeroplano cade giù dalla stratosfera
Tempo della discesa 2 minuti e 33 secondi
Nel frattempo le donne si ripassano il fard sulle gote, si mettono il rossetto sulle labbra, si spruzzano del profumo, sembrano allegre…
Gli uomini non finiscono mai di radersi la barba, hanno anche il tempo di chiacchierare convivialmente tra di loro, cercano di scorgere dai finestrini le nuvole…
Durante questo tempo tutti invecchiano, passano decine di anni, i capelli diventano bianchi, le guance pendule, gli occhi cerulei, ancora per un po’ possono godere dei tramonti…
Ma solo per un po’ perché il tempo sta per scadere.
GIORGIO LINGUAGLOSSA