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L’“IO” DEL LETTERATO È UN ANIMALE FEROCE

Cultura  | 19 April 2025

L’“IO” DEL LETTERATO È UN ANIMALE FEROCE

L’Io lirico nasce con l’uomo. Prima che questione filosofica, psicologica o di poesia, è quindi fatto naturale, nativo. Negare il proprio Io produce un effetto di ridondanza, di ipertrofia espressiva. Difatti, coloro che con sforzo, con inutile sforzo, cercano di zittirlo, finiscono sempre per esagerarlo, fino al fallimento dell’opera letteraria, che qui si discute, e si discute criticamente quindi concretamente, con gli strumenti del fare, cioè dell’esperienza, non certo rimasticando vecchi concetti a ribollire l’acqua che è già calda e bolle. Perché l’ingegno umano si fa diabolico esperimento e non utile esperienza proprio quando tende alla complicazione: per negare l’Io, bisognerebbe negare se stessi, ed è un processare inutile o utile alla follia, vale a dire all’alienazione dalla contemporaneità della propria esistenza.

L’Io del letterato, però, è un animale feroce che va domato, domesticato, e mai negato.

Ma che cos’è questo Io che ci identifica e possiede?

Questo Io che ci identifica e possiede non è altro che il dato biografico: papà e mamma, la prima infanzia, l’adolescenza, i primi amori, la giovinezza, l’età adulta, la paternità e la maternità, la vecchiaia. Tutto questo forma il nostro Io. Questo Io che interviene in ogni nostra azione, quindi in quella dell’artigiano come in quella dell’artista – cioè un artigiano non seriale. L’Io interviene nell’uso della pialla come in quello della penna. Cioè agisce in quella azione che permette la resa concreta del pensiero che abita e muove ognuno di noi. L’artista allora deve agire come agirebbe il falegname per rendere utile la curvatura del legno, che possiamo metaforicamente intendere come curvatura dell’Io, vale a dire prendere atto dell’innegabile dato biografico. Dato biografico che con il Gruppo 63, per esempio e ad eccezione di Edoardo Sanguineti (senza di lui tale forzosa unione non avrebbe avuto alcun motivo di esistere, checché ne dicano I Cortellessa), esplose e implose in nulla, perché più lo si voleva nascondere e più veniva fuori; e questo accade quando non si hanno, o si crede di averli pur non avendoli, gli strumenti dell’arte utili ad addomesticarlo, alla domesticazione dell’animale feroce che abita e fa esperienza in ognuno di noi. Per strumenti intendo talenti, quindi doti naturali, che con la ricerca, vale a dire lo studio, si imparano a utilizzare e raffinare, a farne qualcosa che arrivi al senso delle cose che significa il nostro vivere comune.

Allora come fare? E cosa farne della biografia?

Un passo utile per salvare il proprio Io dall’ipertrofia ed evitare il terribile fallimento, è quello di cominciare a considerare la biografia come fosse sale. Un po’ di sale in cucina ci vuole, non fosse altro che per non insipidire. Allora questa biografia deve farsi vocabolario e ricettario. Solo così si fa utile strumento creativo e non innesco di scritture solo patologiche, che non hanno alcun interesse letterario se non raccolte nelle biblioteche di medicina psichiatrica. L’Io in poesia va sublimato e tutta la nostra historia vitae passata all’alambicco in modo che vaporizzi e gli alcaloidi si disperdano nell’aria: così l’Io, l’innegabile Io, si fa Poesia. Cioè bisogna arrivare a disperdersi perché sia Poesia.

Ma questo ideale volume, questo auspicabile ricettario esperienziale, questo strumento quindi, a cosa ci serve?

Allo scrittore serve per dare sapore ai propri testi, quindi a una lingua che sia distinguibile dalle altre, non omologata, ed è, nello stesso tempo, un indispensabile strumento di verifica del proprio lavoro, cioè un codice proprio e proprietario, vale a dire non trasferibile ad altri perché unico come lo è ogni essere umano, con il quale verificare la qualità del lavoro in opera e operante per salvarlo dal precipizio del fallimento. Vale a dire che serve per verificare se quello che stiamo scrivendo sia aderente al dato di realtà o se se ne stia allontanando prendendo la triste via dell’incomprensibilità. Perché è quando si manca di realtà che si diventa incomprensibili.

Per questi motivi la ferocia dell’Io del letterato deve essere domata, addomesticata, domesticata, e non negata, per così evitare il crudo fallimento dell’incomprensibilità, cioè del solo mio e basta, vale a dire di quella lievitata maschera, ridicola e imbecille, della complicazione per la complicazione.

MASSIMO RIDOLFI

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