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LA CRITICA ITALIANA

Cultura  | 08 December 2024

LA CRITICA ITALIANA

«Era tardi e tutti avevano lasciato il caffè tranne un vecchio seduto all’ombra che le foglie dell’albero formavano contro la luce elettrica.»
ERNEST HEMINGWAY (1899-1961)

Purtroppo la critica letteraria italiana soffre di mitomania, soprattutto post mortem; proprio non riesce a questi nostri critici di non indossare l’abito scuro e i toni scuri della prefica: la scrittura di Vitaliano Trevisan non è solo manierista e basta ma, purtroppo, anche compulsiva, patologica – ma del resto neanche ci si accorge che Emmanuel Carrère, godibilissimo, pruriginoso, così oso oso che ci si casca facile a non stare bene attenti,  è un autore buono per CHI l’ha VISTO; non ci si accorge, insomma, che è una sorta di voyeur, un guardone dei fatti degli altri, un giornalista prolisso che di una fatto di cronaca riesce a farne un intero libro; oggi imitatissimo, come dal pessimo Nicola Lagioia nel suo triste La città dei vivi, pruriginoso guardone di come si scopano e si ammazzano tra di loro i froci, come se non si scopassero e ammazzassero tra di loro come fanno gli eterosessuali (mi accorgo ora che non c’è un termine uguale, di eguale impatto, per indicare con disprezzo gli eterosessuali; allora mi provo a inventarlo di sana pianta o per innesto da qualche pianta che già c’è: frocchi).

 

Poi lo fanno (quando lo fanno?) come se avessero inventato una cosa nuova, una forma altra che prima non c’era – autofiction la chiamano, ma pronunciatelo in francese perché il primo a farlo si disse (da sé) fu Serge Doubrovsky con Fils (1977); ma mentiva pure lui perché tutto partirebbe dal New Journalism, quindi dagli Stati Uniti, e siamo negli anni ’60 quando si pubblicarono per la prima volta questa sorta di articoli narrativi; e poi ci fu il primo libro vero, A sangue freddo (1966), di Truman Capote, che invero tutti è lui che imitano, perché anche lui andò a Holcomb, Kansas, a vedere cosa fosse dal vero successo nella fattoria dei Clutter; e si fece accompagnare da una cara amica di infanzia, di nome Harper Lee. Ma in verità neanche Capote ha inventato niente (come è vero solo che nessuno inventa mai niente dal vero), perché il primo registrato a scrivere in questo modo è stato davvero l’argentino Rodolfo Walsh, con Operación Masacre (1957) – già sento le vocine obbiettare: “Autofiction è un genere e non-fiction ne è un altro, criticuzzo della domenica”; beh, insomma, è un po’ una questione di lana caprina perché uno scrittore, se è di quelli bravi, quando scrive, non riesce a non fingere: non ci può essere nulla di più finto (e falso anche, fate bene attenzione, perché gli scrittori di quelli bravi riescono a fargli dire di tutto alle parole, persino: “T’amo! Ma non vedi quanto io – ma proprio io con l’Io – ti amo?”) della parola scritta, credetemi sulla parola – sulla parola (qui) scritta. 

 

Ma tornando ora da queste parti, cioè dalle parti della critica letteraria italiana, figurarsi allora riuscire a districarsi dagli sciocchi complicatismi di Trevisan quanto è assai più difficile; per non dire dai banali endecasillabi di Stefano Dal Bianco, che solo uno studentello a caccia del 30 a Siena, o peggio ancora di una sua trita prefazione al proprio libretto di poesiole (perché anche tu, giovane poeta, hai scritto una poesia con il tuo cane), potrebbe considerare poesia questo suo finire a scrivere col cane, fino a convincersene pure dell’autorialità del cane: i matticomi bisogna convincersi di riaprili, prima o poi (o dopo).

Ecco, da questi autoriautoautori bisognerebbe riguardarsi bene (come dal freddo di questi giorni), se si volesse sperare di fare critica letteraria e non propaganda editoriale – fino a piegarsi alla nota editoriale.

Premettendo e ribadendo che l’Arte richiede sempre una porzione non piccola di dolore, torno anche a dire che il grande artista è colui che riesce a tramutare il male in bene, che è Bellezza, ché non annoia mai a guardarla la Bellezza. E Vitaliano Trevisan questo non ha saputo farlo; e non apprezzando Hemingway, causa la sua nessuna capacità critica perché era in grado solo di vedere se stesso, ha mancato la Lezione e ha finito per riempire fogli e fogli del suo stesso vomito negandosi così ogni possibile esorcismo dal dolore – la Lezione, intramontabile quanto utile, è quella di usare solo delle parole quello che è necessario alla descrizione di una azione, e di lasciare tutto il superfluo sotto, sotto l’iceberg, nascosto, ché non si veda il brutto che resiste dell’autore, Vitaliano: per comprendere meglio questo concetto basta leggere i racconti di Hemingway lentamente, assaporandone ogni parola, masticando bene, Vitaliano (Vitalieno, scrissi di te un giorno): è tutta lì la sana costruzione di quella Bellezza che non stanca mai lo sguardo.

Così facendo, invece (cioè come era che faceva la scrittura Vitaliano), la scrittura non lo ha affatto aiutato e la malattia lo ha sovrastato fino all’ammazzamento: Arte è sempre il risultato di un estremo, altissimo momento di lucidità nell’ascolto dell’altro sa sé; se non è così, è solo un’altra malattia che non porta altro che malanno, e malanimo – persino alla morta ti arriva a portare. E tutto questo significa non essere artisti, vale a dire quell’uomo che, partendo dal dato di realtà, ha talento di rifare mai uguali le cose.

Prima di scrivere di critica, foss’anche dell’hamburger gourmet appena azzannato sotto casa e costato quanto un quarto di bue, assicuratevi, cari critici domenicali (oggi è domenica, per chi non se ne fosse ancora accorto), di aver tolto tutti i poster dalle pareti della vostra cameretta, e di non fingere passioni e amori che non avete invero mai avuto. Perché anche la critica, ché è pure questa un’arte da praticare solo se si ha il talento necessario per farsi servitore, non è certamente un esercizio di verità bensì del vero.

Un critico, almeno dignitoso, ha sempre l’obbligo di lasciare un posto pulito, illuminato bene.

MASSIMO RIDOLFI

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