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LIBRI: BELLINA CHE SEI NATA ALLA MONTAGNA

Cultura  | 31 July 2024

«Quello qui presentato è un lavoro parziale, ancora in corso, che non ha pretese di esaustività, ma vuole piuttosto indicare possibili strade di ricerca nella necessità di una riflessione circa la nostra percezione delle donne, delle montagne e delle trasformazioni che la modernità ha comportato per entrambe.»
Marta Iannetti (1984-2020)


L'ultima volta che vidi Marta Iannetti fu nell'agosto del 2020, a Penna Sant'Andrea, in provincia di Teramo, dove, al termine di un convegno di Antropologia e Etnomusicologia, si restò insieme a bere e cantare canzoni della tradizione agropastorale dell'Abruzzo teramano.

Ricordo che Marta era abbracciata al signor Antonio (se non ricordo male il suo nome), un vecchio contadino di Contrada Pilone, poco distante, che ricordava ancora l'urlo antico di mio zio Tonino che a sedici anni perse una gamba nella trebbiatrice di mio nonno Settimio, suo padre, mentre si lavorava il grano della campagna di Arsita. Una disgrazia che ancora risalta nella memoria di chi c'era per dolore e sacrificio; dolore e sacrificio che salvarono la vita di mio zio Tonino a costo dell'impoverimento: non esisteva ancora la mutua, la Sanità Pubblica, che inizierà a prender forma solo nel 1979 così come la conosciamo ora, quindi tutte le cure erano possibili solo a pagamento ed erano costosissime.

Ecco, ma torno a quel vecchio contadino abbracciato stretto a Marta: l'Antropologia e l'Etnomusicologia sono entrambe custodite nella fragile memoria dei nostri vecchi, possessori di un preziosissimo giacimento tanto naturale quanto inconsapevole che i ricercatori cercano di cavare per poterlo trasmettere e conservare; ed è un lavoro importante, che lotta di ora in ora contro il tempo prima che questi tesori svaniscano con chi, inconsapevolmente, li ha custoditi. Questo era il mestiere di Marta Iannetti, di ora in ora.

E allora risalta la foto (p. 20) che apre questo suo lavoro ultimo, Bellina che sei nata alla montagna, dove la ritroviamo accanto a Luigina Panza, dalla quale Marta raccoglie attenta in questo libro il primo e più ampio racconto di una vita passata sotto (letteralmente sotto) le pendici del Gran Sasso d'Italia, cioè nel comune di Pietracamela, sempre sul versante teramano, luogo d'elezione di questa ricerca – sono molte le foto a corredo di questa pubblicazione e tutte bene in trama con il testo, buone da leggere, e ci tornerò più avanti.

Marta, si dica da subito, di un severo testo scientifico, riesce a farne un montano racconto corale aprendolo così alla lettura di tutti, ben oltre i rigidi confini che interessano la ricerca accademica: "[...] tanti della mia generazione si muovono portati dal bisogno di capire cosa c'era prima, si fermano ad ascoltare gli anziani e le anziane" (p. 25). Allora non sbaglierebbe chi aprisse questa sua pubblicazione come fosse un libro di racconti – puliti e illuminati bene, direbbe Ernest Hemingway. Quindi si può affrontarlo come puro testo letterario, di letteratura d'arte proprio, dove l'autrice ci riporta: "Un tempo ricco in cui mi sono andata a sedà – a veglia, a fare visita – nelle case, armata di una videocamera e della inesauribile voglia di ascoltare [...]" (p. 26).

Ecco, è un ascolto che ci propone Marta attraverso il suo libro: questo è un lavoro che parte dall'oralità, dallo scambio sonoro di parole, prima che scritte, dette e ascoltate, ché è solo dopo la primitiva esperienza della voce e dell'orecchio che la raccoglie che la ricercatrice ha cercato di salvare nello scritto la sua scoperta.

Un'altra particolarità di questa ricerca è che si concentra sulle donne di montagna, le anziane di Pietracamela appunto, ed è il più importante affaccio panoramico che ci offre questo libro. Difatti Marta prende in esame il racconto di 15 donne e 7 uomini del paese, di una età che oscilla tra i 63 e i 103 anni e il tutto raccolto nel periodo 2012-2013: "I racconti hanno lasciato svanire dal mio immaginario il passato come un tempo monocolore [...]" (p. 26) ci avvisa la ricercatrice come a volerci preparare alla lettura, alla scoperta di un mondo antico che reggeva sulle spalle delle donne (agro-pastoralismo domestico), storicamente madri mogli e sorelle di cardatori che passavano gran parte dell'anno lontano da casa. E ancora, totalmente in controtendenza con l'attuale attività letteraria tout court, Marta nel lavoro porta così in evidenza, e con uno specifico peso politico, i ruoli e le relazioni particolari che nascono tra i generi nel sistema sociale degli umani, vale a dire che rileva due generi, due ruoli sociali sessuati attivi, il maschile e il femminile: "Tuttavia il tipo di attenzione che ho destinato alle figure femminili nasce dalla scelta politica del genere come chiave di analisi del reale, dalla necessità cioè di dedicarsi alla vita delle donne con il fine di uscire da narrative e immaginari dominanti che sono spesso imperniati sul maschile." (p. 27). E il tutto riletto dietro la lente di un femminismo intelligente, vale a dire che sa analizzare la funzione della donna nella società senza zavorre ideologiche.

Ma, a proposito di donne, è giusto tornare allora a quella foto (p. 20, 27 ottobre 2012) che ci mostra Marta e Luigina sedute una accanto all'altra vicino al camino dell'abitazione di quest'ultima a Pietracamela: "Il paese stava bene, li abbiamo maneggiati sempre i soldi." (p. 30) le testimonia da subito l'anziana donna, orgogliosa della sua esistenza montanara, sconfessando la vulgata di un vivere la montagna povero e disagiato. Allora Marta, da scienziata, verifica la realtà che riportano i dati statistici del periodo che non confermerebbero quanto affermato da Luigina. Difatti, Nicolina De Dominicis (p. 159), altra importante testimone, le conferma che nel tempo che racconta Luigina "una mollica era una cosa grande" (p. 30). La testimonianza più lucida e veritiera ci arriva su questo punto da Berardino Giardetti: "Tutti erano ugualmente poveri e, nello stesso tempo, ugualmente ricchi, giacché ognuno aveva la sua casa, seppure misera, i suoi appezzamenti di terreno, i suoi prati." (p. 31). Il concetto di ricchezza a Pietracamela nella prima metà del Novecento era evidentemente regolato sull'avere e accumulare il più possibile di che vivere, quindi più beni di primissima necessità si avevano a disposizione (soprattutto per superare i lunghi e rigidi inverni) e più ci si considerava ricchi, che pare non mancassero in paese neanche durante la guerra, ma sempre conquistati con grandissima fatica.

A leggerlo attentamente questo libro (che mi ha ricordato per certi versi, in particolar modo per la raccolta testimoniale, Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, anche se meno metodico e più esperienziale fu il lavoro del poeta-sindaco di Tricarico, e più concentrato sull'individuo che sulla comunità; del resto si era agli albori della specifica disciplina, l'Etnografia, vale a dire dello studio sul campo delle popolazioni, che Scotellaro andava apprendendo e praticando a suo modo sotto la supervisione di Manlio Rossi-Doria, che lo attendeva alla Facoltà di Agraria di Portici, dove il poeta della civiltà contadina concluse drammaticamente la sua esistenza a soli trent'anni) si ha come la sensazione che non sia più così lontano questo passato di povertà o di presunte ricchezze, così come siamo tornati a un impoverimento del salariato interno a favore delle macchine e dello sfruttamento del lavoratore extracomunitario, più a buon mercato perché totalmente digiuno di diritti.

Ma, comunque la si voglia raccontare, traspare innegabile da ogni dire custodito in questo libro la dura esistenza storica del contadino e della vita di montagna, salvandoci tutti dalla vulgata che vorrebbe dirci invece che si stava meglio quando si stava peggio, mentre viviamo senza ombra di dubbio un presente migliore. Mancano certamente rispetto a prima la caratura morale e la dignità che traspaiono da questi antichi ciclici gesti contadini – significativo a tal proposito il principio del compascolo (pp. 65-69), vale a dire che dopo la raccolta delle prive erbe, cioè dopo la fienagione ovvero non prima della seconda domenica di luglio, i pascoli divenivano d'uso comune anche se proprietà di un privato, e tale facoltà era riservata a tutti i piccoli allevatori che svernavano in paese, possessori di pochi capi per autosostentamento, protetti così dal prepotere dei ricchi allevamenti transumanti.

Le donne dell'epoca sono centrali anche nell'accesso alla scolarizzazione, delle quali la maggior parte studiavano da maestre non certo per una propria crescita culturale o vocazione all'insegnamento ma per cercare di emanciparsi dalle petrose terre di montagna con il posto statale, azione che tuttora accomuna tutto il Mezzogiorno e non è certo una particolarità pretarola, ambiente dove questo studio si restringe e costringe – mentre nel Settentrione si è sempre creduto nell'emancipazione raggiunta attraverso il lavoro in proprio, vale a dire imprenditoriale, dando meno attenzione allo studio e al posto statale, aspirazione ritenuta degradante, tutta suddista. E nel mentre figliavano come natura vuole senza alcuna educazione sessuale o preparazione alla maternità ma appese a un sapere empirico tramandato di voce in voce: "Tu ti mancava quello, non ti veniva le mestruazioni era quello. Nessuno ti diceva niente, prima facevano i figli e basta." riporta Luigina Panza dalla sua esperienza (p. 104).

Dopo tanto raccontare di donne montane dentro questo libro, mi sposto sulla foto di Romolo Intini (p. 85, Pietracamela, 16 aprile 2013), l'ultimo cardalana o scardassiere o cardatore o lanaro del paese, mestiere tutto manuale tipicamente maschile per il quale la capacità dei pretaroli era rinomata e richiesta in tutta Italia, artigianato oramai scomparso già nella seconda metà del Secolo scorso a favore delle macchine. Questi uomini furono poi assunti in massa per la realizzazione dei grandi lavori pubblici che interessarono l'area del Gran Sasso d'Italia e dei Monti della Laga già durante il Ventennio, come altri furono impiegati nelle colonie africane. Difatti è iniziato con l'offerta del lavoro salariato lo spopolamento dei borghi montani, processo allora come ora inarrestabile che ha trasformato questi luoghi in meri rifugi estivi, vacanzieri, per i nativi; azione che però, data la scarsa attitudine della politica e dell'imprenditoria locale, non si è mai realizzata in una concreta e funzionale offerta turistica. Ma tornando su Romolo, nella foto possiamo vederlo operare dimostrativamente ai cardi o cardacci, con i quali si iniziava una prima filatura della matassa di lana facendone dei cordoni lunghi più di un metro. Sostanzialmente i cardi (anticamente per questa operazione era utilizzata propriamente la pianta del cardo) sono due sorte di spazzole spinose ovvero chiodate con le quali si sfregavano le matasse di lana al fine di allungarle.

C'è uno scatto in appendice a questa pubblicazione dove, di profilo, a destra, vediamo Marta con in mano la videocamera che inquadra, al centro dell'immagine, Nicolina De Dominicis, e a sinistra, sempre di profilo, vediamo sua figlia Ailana Paoletti che mostra a Marta una foto di anziane di Pietracamela, quattro donne sedute al sole in fila su un gradone: Concetta Paglialonga, Maria Di Cola, Luisetta Di Cola e Rosaria d' Pipecc sono le quattro donne ritratte in uno scatto degli anni '50. Ecco, in questa immagine credo sia ben rappresentata la forza faticosa della ricerca che si fa scavando nelle memorie sfilacciate degli anziani nel tentativo di trarne una trama resistente al tempo della stampa, scatto che di questa specifica ricerca del femminile ne offre una convincente sintesi, una icona (p. 151).

Ma questa pubblicazione ci consegna non solo un particolare libro di Antropologia e Etnomusicologia perché ha anche una precisione testamentaria, vale a dire di lascito utile alla continuazione di un percorso già tracciato ma da completare con eguale impegno; l'impegno dell'amore speso in quello in cui si crede abbia forza di esistere contro il più atroce progresso, che troppo spesso respinge l'uomo in nome del profitto; uomo del tutto simile alle donne e agli uomini che Marta Iannetti è riuscita a salvare in questa sua ultima fatica alla vita.

MASSIMO RIDOLFI  

 
 

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