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LIBRI: CODICE CANALINI DI GIULIO MILANI

Cultura  | 07 March 2025

LIBRI: CODICE CANALINI DI GIULIO MILANI

«dove l’uomo ha lavorato bene, lì è il bene, per l’uomo»(1)
EDOARDO SANGUINETI (1930-2010)

È la prima volta questa nella quale ho richiesto io all’editore di poter recensire un libro del proprio catalogo; ma questo editore è anche uno scrittore.

Quindi non vi parlerò dell’editore, di Pier Vittorio Tondelli o di Massimo Canalini, come ho letto in moltissime recensioni negli ultimi giorni. Anzi, questo è stato il vero motivo che mi ha spinto a contattare direttamente Milani, dicendogli che, dalle recensioni che ho visto, non credo che l’abbiano veramente letto il suo libro.  Perché questo di Milani basta averlo tra le mani per accorgersi che è in libro vero. Ma i nostri critici oramai, oltre a non leggere davvero e dal vero i libri che pretendono di recensire, neanche più li prendono in mano – oppure avranno perso l’uso delle mani?

No, io vi parlerò di Giulio Milani, attraversando questo suo libro, che appare vivo già solo ad averlo tra le mani, come un lavoro fatto bene, come un lavoro di artigiano; come un corpo umano.

Il corpo umano?

Il corpo umano come strumento atto al vivere e al resistere. Milani pone il suo corpo a difesa di questo libro personale, cioè scritto prima di tutto per se stesso. Prima di tutto c’è il suo corpo che troviamo in questo suo personale libro. Perché questo è uno scrittore che pone innanzitutto il proprio corpo a difesa, prima delle parole. Dobbiamo figurarcelo in questo lavoro come un guerriero che torni da una lunghissima campagna e si isoli a scavare con la penna su un foglio le sue memorie. Scavare è rivedere. Rivalutare. Porre in essere un’opera di ricostruzione dell’accaduto. È il resoconto di un accaduto che andava assolutamente salvato e riraccontato a chi non c’era dentro quei giorni giovani e folli e di passione. La tensione. L’urgenza. La ragione. Il gesto. L’azione. Lo scrittore. L’artigiano. La Letteratura. La piccola storia editoriale.

Si capisce subito che questo è un libro del sottosuolo. Che emerge in superficie. Che raffredda da una improvvisa febbre, la Morte. E io, come uso fare, questo libro me lo sono portato appresso per un po’. Un po’ l’ho amato. Un po’ l’ho odiato. Stropicciato. Segnato. E curato. Ma, soprattutto, l’ho letto. Ne ho letto ogni pagina. Come uso fare.

Gli anni ‘80 sono quelli che hanno sicuramente decretato la morte intellettuale di questo nostro paesello: la TV commerciale, la Milano da bere, la pubblicità, i paninari, i metallari (non il punk, che termina con London Calling dei Clash, 1979: il prolungamento del fenomeno oltre questa data è da considerarsi deteriore, formalmente e sostanzialmente: questa è la data che, inoltre, chiude la cultura Rock ‘n’ Roll, iniziata negli anni ‘50, che qui si vuole intendere non solo nella sua versione prettamente musicale: con i metallari si arriva al puro rumore), i gruppi, le mandrie, le greggi, i branchi di giovani morti che si muovevano coi soldi di papà dentro una Italia ritrovatasi improvvisamente ricca: finalmente più soldi per tutti, dopo gli anni ‘50, ‘60, ‘70, arrivano gli ibridi anni ‘80, né carne né pesce, né conflitti né armistizi, quelli dell’apparente uguaglianza, quelli dove cominciammo a vestirci tutti uguali e a non uscire più di casa, a farci mammoni, invecchiati e attaccati come uno schizzo di massa al grembiale scolorito della mamma. E poi, come una maledizione, l’AIDS (p. 5-6), e la pubblicità progresso che i contagiati li segnava con un contorno lilla fluorescente, tipo aureola che cerchi però l’intera sagoma umana, come si farebbe intorno a un cadavere freddato al suolo, solo che questi erano ancora verticali e semovibili tra la gente.

E da questo sfacelo parte il racconto di Milani, dicendoci però un’altra storia e di sogni e di impegno nel sogno. E lo fa con una scrittura che non ha paura del motore istintivo, molto vicina al parlato, buttata lì per acquisita tecnica scrittoria che non parrebbe avere bisogno di revisioni: va bene così; scrivo così; scrivo coi piedi per terra, da terra – “Non volevo rompere il cazzo con le note” (p. 33) ci avverte piegandosi per una volta alla prepotenza di una nota, che inevitabilmente interrompe una lettura, e questo testo ne avrebbe bisogno, volendo, di un centinaio (magari a fine corsa) o di nessuna, come a dirci: Lo so che non è un libro perfetto, e non lo è affatto, che un buon cattivo editor, alla Massimo Canalini appunto (solo nelle naturali fragilità di un esordiente o di uno scrittore debole, vale a dire chi crede che la Letteratura stia nella trama, quando invece è vero che può stare solo nel tessuto linguistico che veste il testo, possono infiltrarsi e incistarsi le frustrazioni di un buon cattivo editor, e tale influenza porta solo allo sviluppo dei fattori negativi dei due casi in oggetto: l’editor buono e basta è colui che sa vedere se nel testo ci sia tessuto linguistico e il suo operare, mai invasivo, deve essere in grado di farlo sviluppare al massimo delle proprie possibilità, pp. 113-116; e ancora peggio sarebbe cercare forzosamente di arricchire il vocabolario dell’autore, azione solo nociva che castrerebbe la voce propria dello scrittore, soprattutto se giovane, pp. 166-167, che deve avere il tempo e lo spazio necessari di esercizio per maturare da sé), commettendo un grave errore, avrebbe fatto a pezzi rovinando irrimediabilmente un libro vero. Un dettato che esteticamente sta tra Beppe Fenoglio e Mario Rigoni Stern; ma si potrebbe azzardare addirittura Ernest Hemingway, il più straordinario interprete dell’umane cose, perché, in letteratura, si scrive bene quando si scrive male, vale a dire quando il testo è il preciso tracciato tellurico dell’autore, che identifica lui e nessun altro: balbettii sintattici, vocabolario, sgrammaticature e regionalismi compresi, quelle sacrosante imperfezioni che ci rende tutti diversi e veri – è già qui che segna il suo fallimento l’intelligenza artificiale, perché dell’uomo sa solo quello che le è stato riportato, ma invero non lo ha mai incontrato; quando invece è vero che l’artista non fa altro che raccontare del suo proprio incontro con l’uomo per chi non c’era, come accade anche in questo libro, che ci riporta persino di zucchero e denti marci (pp.  6-7), del vivere consumandosi. E tutto questo fare già da subito ci porta alla bocca, alle labbra che provano a vibrare qualche parola, la sapidità di questo libro. Milani, si dica subito, ci lascia tra le mani un libro non convenzionale, magari ancora sporco, volutamente lasciato sporco, ma agile. Croccante. Che a leggerlo ci si sbriciola addosso, e ci si ferma a raccoglierne pure le briciole: questo non è un libro dell’invenzione ma della presa diretta dalla vita dello scrittore. E lo scrittore lo riempie di nomi (quello di Francesco Scarabicchi è a me più caro, p. 12), di cose e mestieri (i caratteri mobili Garaldus ereditati da un anziano tipografo, pp.  9-10, un accesso un po’ romantico all’editoria ma molto vero) che ci pare di sapere anche a non conoscerli perché durante la lettura partecipata – che ci fa partecipi – di questo testo ci diventano famigliari, soprattutto negli affanni – ancora di più nei fallimenti.

E Milani ci colleziona degli oggetti – fotografie (ritengo di assoluto e urgente interesse filologico il recupero della traccia che conduce alle antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli per i tipi di Il Lavoro Editoriale/TranseuropA tra il 1986 e il 1990, pp. 37-49, considerata la perniciosa miopia della nostra editoria verso questa forma letteraria, invece di notevole importanza, molto più della forma romanzo, ovunque si stampi e si legga nel mondo – e pensare che il racconto trova la sua più nobile origine proprio in Italia con Giovanni Boccaccio e le sue cento novelle del Decameron, 1350-1353), immagini, cartoline –, dei cimeli, delle reliquie, tutto ficcato dentro la scatola del libro a testimonianza di una fede, quella per la Letteratura. E quindi leggerlo è un po’ come entrare nella cameretta dello scrittore ancora bambino o già adolescente per guardargli dentro i cassetti; per guardargli dentro. Perché qui mi riesce facile figurarmi lo scrittore che pesca a piene mani nella propria memoria e di questo cogliere ce ne consegna un documento che riguarda non solo la sua esperienza personale ma un dato storico della nostra, o meglio, delle nostre Ingrate patrie lettere!, vale a dire di quella disattenzione di chi dovrebbe dello scrivere e del pubblicare fare un unico grande patrimonio di valore, valoriale, perché dove l’uomo ha lavorato bene, lì è il bene, per l’uomo.

Giulio Milani allora ha lavorato bene. Ha fatto il nostro bene. Ha fatto il nostro bene perché ha consegnato nelle nostre mani un libro vero. Questo è un libro vero! Tutto immerso dentro i fatti e le cose dello scrivere e del pubblicare. E la vicenda che ci racconta non è certo secondaria delle Nostre Ingrate patrie lettere! –  ma, in verità, più di tutto il resto, di questo libro è importante la sua scrittura, “molto quotidiana (e molto da quotidiano, proprio)”(2).

MASSIMO RIDOLFI

1. da Ballata del bene culturale, Ballate (1982-1989), Mikrokosmos, Feltrinelli, 2004, p. 290.
2. “molto quotidiana (e molto da quotidiano, proprio)”, da Postkarten 62, LXVII poesie (1972-1977), Mikrokosmos, Feltrinelli, 2004, p. 88. 

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