"Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile."
ERNEST HEMINGWAY (1899-1961)
Festa mobile (1964) di Ernest Hemingway va inteso non come romanzo ma come una raccolta di pagine di diario sull'esperienza del mestiere dello scrittore, però, scritte con la consapevolezza di volerle pubblicare, vale a dire di farne un libro, ma nulla ha a che fare con gli stupidissimi manuali di scrittura creativa, dai quali è sempre consigliabile stare alla larga, chiunque li abbia scritti: in questo libro, invece, è racchiusa una vera Lezione dal vero su cosa significhi essere uno scrittore, un artista, un artigiano; ed è una vera lezione perché non c'è alcun insegnamento possibile o la descrizione di una pratica tramandabile, mutuabile. Il grande scrittore americano, sicuramente quello più influente e imitato del '900, che ha cambiato per sempre il modo di scrivere in prosa, su queste pagine di diario ci dice semplicemente, con la sua solita e impareggiabile asciuttezza, Io faccio così, e succede questo e quello. Ed è un libro davvero importante se lo si leggesse a chiusura di una profonda ricerca sull'opera di Hemingway, vale a dire dopo aver letto tutto ciò che ha pubblicato in vita, cioè i suoi romanzi (ne sono otto) e tutti i suoi racconti (ne sono 49, e molti anche piuttosto brevi).
Molto raramente ho letto opere postume, vale a dire non licenziate davvero dal suo autore. La scrittura è un'arte solitaria è volubilissima, che non può farsi se non attraverso il suo autore, i suoi pensieri e il fare delle sue mani sopra quel foglio di carta da riscrivere mille volte, da calcare e cancellare fino a quando si è finiti dentro quel foglio di carta attraverso quella penna (personalmente uso sempre la penna, di quelle usa e getta, di solito le più economiche in commercio, che consumo fino all'ultima goccia di inchiostro, scatola su scatola, penne che mi procura mio fratello, che lui fa il magazziniere presso un grossista di prodotti per cartoleria; utilizzo soprattutto penne a inchiostro nero, e quelle blu e rosse per le revisioni, prima la blu e poi la rossa se devo fare una ulteriore variazione sul blu) o quella matita che si aveva tra le dita.
E in questo libro Hemingway chiarisce subito, già al secondo capitolo, quelli che erano i suoi reali rapporti con Gertrude Stein, che gli offriva ospitalità e consigli per poter campare a Parigi, letteralmente, ma che per nulla ha influito sulla sua opera perché avevano visioni opposte sull'arte della scrittura, lui così vicino alla vita e tutto immerso nella sua inesausta ricerca per cercare di avvicinarla sempre di più, il più vicino possibile, mentre la Stein praticava un dettato sì non convenzionale, estremamente sperimentalistico, di ispirazione cubista ma fino alla rarefazione, l'esatto contrario di Hemingway, concreto, terreno, che non aveva nessuna stima artistica della Stein, al contrario di quello che impone la vulgata della sprovveduta massa critica nazionale. A Hemingway piaceva della Stain il suo salotto-studio in rue de Fleurus 27, letteralmente, come a tutti gli scrittori americani che riparavano a Parigi in quegli anni, che la Stain chiamava Une Génération Perdue, ché da lei si stava al caldo e si trovava sempre qualcosa da bere e da mangiare, contornati dai primi quadri cubisti e di altri linguaggi pittorici comprati dai molti amici artisti, come Pablo Picasso, Henri Matisse. Di Hemingway la Stein diceva che non era uno scrittore abbastanza bravo, bravo quanto lei da poter essere pubblicato, da poter minimamente essere preso in considerazione da riviste importanti come Atlantic Monthly o il Saturday Evening Post, non intuendone affatto il talento (o invidiandoglielo) e l'importanza della sua ricerca di massimo avvicinamento alla vita, già persa nelle more della linea cervellotica e modernista dei Professorenpoesie, Pound, Eliot, Joyce – il ritratto che ne fa Hemingway della Stein in questo libro è tutt'altro che lusinghiero. È vero invece l’esatto contrario, perché fu Hemingway che aiutò la Stein a ottenere le prime pubblicazioni, nonché a correggere i suoi scritti e, addirittura, a batterli per lei a macchina.
Ed è in questo libro che racconta di quando a Gare de Lyon (forse la più bella stazione di Parigi, edificata in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, dove ogni giorno arrivano da Milano almeno cinque treni che in 7 ore ti portano nella capitale francese) perse tutto quanto aveva scritto fino a quel momento, manoscritti, dattiloscritti e copie carbone, salvandosi solo due racconti perché già inviati per la pubblicazione, Il mio vecchio, poi inserito al capitolo tredicesimo della serie incentrata sul personaggio di Nick Adams (suo alter ego adolescente, nonché primo abbozzo di romanzo), e Su nel Michigan, scritto appunto a Parigi nel 1921, il suo primo racconto in assoluto, della cui stesura ci dice proprio all'inizio di Festa mobile: oggi questi testi sono entrambi registrati ne I quarantanove racconti, già dalla prima edizione.
Invece, in questa ultima edizione di Festa mobile (2009), restaurata e accresciuta nonché curata dal nipote dello scrittore, Sean Hemingway (la cui curatela non mi pare eccellente: l'edizione manca, ad esempio, di un indispensabile indice dei nomi e relative note), troviamo la sezione principale con diciannove capitoli dedicati a Parigi (ma diremmo meglio i diciannove racconti su Parigi, otto in più), una coda di altri dieci testi (ancora racconti potremmo definirli senza sbagliare ma che in realtà sono croccanti esperimenti di scrittura, dove ne troviamo uno davvero strano ma incredibilmente vero dal titolo Piaceri segreti) raggruppati sotto il titolo collettaneo Altri sketch parigini, più, in chiusura, altre carte parigine sugli anni Venti del secolo scorso recuperate e sistemate sotto il titolo Frammenti, sette paginette di abbozzi di prefazione e postfazione dell'autore che si sforza a convincere il mondo che trattasi di un libro di fantasia, come di prammatica, soprattutto a quel tempo, col fine editoriale di evitare durissime cause risarcitorie da parte di chi nel libro si sentisse eventualmente preso e messo in cattiva luce.
La parte più dura del libro, quindi più cinica e allora più vera del diario, sono quelle cinque paginette dedicate a Ernest Walsh, L’uomo che era marchiato a morte, delle quali, però, non dirò nulla. E non dirò nulla neanche di quelle ventitré paginette (la sezione più lunga e forse famosa del libro), le più divertenti e vive dell’intero diario, tutte dedicate a Francis Scott Fitzgerald, Scott Fitzgerald. E non dirò di quei due capitoletti finali dedicati a Scott e Zelda insieme, I falchi non dividono e Una questione di misure. E resterò muto anche per quanto riguarda le vicissitudini di Evan Shipman, Evan Shipman ai Lilas e Nada y pues Nada. Non dirò altro perché i libri vanno letti e mai raccontati, tanto meno chiacchierati.
Parigi è stata sicuramente la città più amata da Ernest Hemingway, dove la sua generazione dopo il primo conflitto mondiale si è ritrovata e irrimediabilmente perduta.
MASSIMO RIDOLFI
1. In copertina Au Café (1920 c.) di Jean Louis Marcel Cosson (1878-1956)