La drammatica fine del povero Lorenzo Patàro supera di gran lunga ogni possibile questione letteraria, ed è su questo che bisognerebbe interrogarsi.
Ci deve interrogare quella madre inginocchiata tra il figlio morto e quello ancora vivo. Quella madre straziata deve riportarci al dato di realtà. E non esiste nessuna parola, anche la più levigata, che potrebbe salvarla: nessun verso avrebbe forza di rialzarla.
La parola non protegge da nulla. Semmai la parola scopre. Ma piuttosto nasconde. Non c'è nulla di più falso della parola, soprattutto in quelle di uno scrittore. Perché ne fa arte. È l'arte è l'ingegno della finzione. Al massimo delle sue possibilità, la parola può accompagnarci; farci compagnia.
Ma mettersi a scrivere credendo di cambiare qualcosa nella Storia della letteratura o, peggio ancora, cercando del consenso, sono i peggiori modi di farlo, e sicuramente lo si fa male.
Si scrive innanzitutto per se stessi, ed è una esigenza più legata alla fisiologia che all'estro creativo. Tutto quello che dovesse arrivare oltre questo gesto necessario, sarebbe un di più da accogliere sempre con gratitudine. Nulla è dovuto. Il mito del poeta giovane è una menzogna. Non è la morte a fare il poeta ma l'opera.
Patàro, pur giovane, non è affatto vero che non ha avuto attenzione critica, che ha ricercato con caparbia in ogni modo e ottenuto, ben oltre il merito perché il suo versificare era invero ancora lungo da formarsi - è qui il dramma tutto letterario del poeta giovane. Nella poesia non c'è proprio nulla di giovane ma tutto di antico.
Ma tutto questo resta infinitamente secondario e sciocco rispetto al termine della vita di un giovane: il vero capolavoro è vivere superando il dolore. Di là da questo c'è solo il narcisismo.
MASSIMO RIDOLFI