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MUSICA: CCCP

Cultura  | 18 June 2024

La modernità è rintracciabile sempre nel passato, pensavo mentre giovedì 13 giugno mi accingevo a partire per Roma, da dove manco dal 16 febbraio 2015 – e il ricordo preciso di questa data è intriso nel puro dolore; ma ricordo pure che l’ultimo luogo che visitai quel giorno fu il Ghetto ebraico: è da quella visita che scaturì il componimento in versi Nel Ghetto, scritto in un lampo, che non può accadere che dentro un lampo la poesia (Link: https://www.facebook.com/share/p/cSprkENWzbVvxndb/).

Ma quel mio pensiero, invece, nasceva dal fatto che mi stavo recando al concerto dei CCCP dove avrei ascoltato per la prima volta dal vivo le loro canzoni e, soprattutto, sentite e viste la carne e la voce di Giovanni Lindo Ferretti, l’autore di tutte le parole di quelle canzoni, urlate per l’ultima volta, accompagnato da questa formazione, trentatre anni prima – ho scritto “accompagnato”, ma su questo torneremo in seguito.

Le parole quindi i testi dei CCCP fatti dalla carne e dalla voce di Ferretti dal 1982 al 1990, quando il gruppo si sciolse per volere dello stesso cantautore dopo la caduta del Muro di Berlino (Epica Etica Etnica Pathos è il loro ultimo lavoro, 1990), rappresentano la sintesi liturgica dei morti e sepolti ideali novecentisti, perché come nessun altro Ferretti ha saputo cogliere il senso delle perse speranze novecentesche di un mondo uguale e migliore e, oggi, la tragedia di quel fallimento è attualissimo come ogni rovinosa caduta umana – per tutto questo sono di una modernità che solo il passato può conservare nell’implacabile battito ritmico di un dire vere le cose nelle carne e nella voce mistiche di Giovanni Lindo Ferretti, e tutto in un processo che sa di sacro, di religioso, di duro cattolicesimo, di collettiva esperienza come di transustanziazione di quei testi, tutti scolpiti nella Storia dell’anticapitalismo, perciò è sbagliato vedere contraddizione nella parabola di uomo e di artista di Ferretti, quando fede politica e religiosa hanno sempre convissuto unite contro il Capitale, e questa può essere opera solo di un grande intellettuale: l’artista diviene grande come intellettuale quando nell’opera (e non nella chiacchiera), per capacità critica, riesce a essere sempre contemporaneo, cioè Vivo! Giovanni Lindo Ferretti resterà in vita anche dopo la sua morte perché moderno; perché il buon Dio gli ha fatto il dono della modernità.

Ma arriviamo al concerto. Sono giunto all’Ippodromo delle Capannelle di Roma a concerto iniziato da un paio di canzoni, che sento avvicinandomi al palco e che comincio pure io a cantare abbracciato alla mia compagna, e lo trovo gremito di gente di una età che oscilla dai venti a sessant’anni; gente che canta a squarciagola e a memoria (impolverata e un po’ ubriaca e incredula), dopo trentatre anni, tutte le canzoni dei CCCP; Bella gente d’Appennino, per dirla con Ferretti, che, come me, li vedeva dal vivo forse per la prima volta ma che in questi ultimi trentatre anni li ha continuati a sognare e cantare dentro una insperabile riunione di tutti i suoi componenti originali – e la grandezza di questo imperdibile evento sta tutta qui: questo è sicuramente l’evento più importante della storia della musica italiana degli ultimi trentatre anni, indubitabilmente. Vedere dal vero e dal vivo i CCCP è davvero un salto insperato indietro e avanti nel tempo.

Ferretti è in gran forma. Rasato. Dimagrito. Concentrato. Dritto al centro del palco con il leggio a fianco. Completo antracite di lana, pantalone e giacca alla coreana, camicia bianca e scarpe nere: orlo dei pantaloni alto con in mostra il calzino di spugna di colore bianco. Intorno a lui le evoluzioni di Annarella e Fatur (con la sua riposta panza primordiale); dietro i musicisti con a capo la chitarra di Massimo Zamboni. Tutto sopra un palco alto almeno otto metri, attrezzatissimo, lontano anni luce dall’era originale del punk.

Ecco, torniamo allora sul concetto di “accompagnato”: l’infallibile Ferretti, che raggiunge l’apice della sua esibizione con i pezzi Oh! Battagliero e nella cover italiana (che fu in origine di Dalida, 1966) di Bang Bang (My Baby Shot Me Down) di Cher, che lega magistralmente a Spara Jurij, sembra naturalmente avulso dal gruppo perché in questo concerto appare offrire, per istinto e vocazione, la sua versione solista, dove ha prodotto il meglio della sua musica dal 2000 a oggi si potrebbe dire, perché lui, di per sé, non ha mai fermato il suo canto, fosse anche solo per intonare una preghiera nella sua casa di Cerreto Alpi: “Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così / Non dire una parola che non sia d’amore.” - “All’erta sto come un russo nel Donbass / come un armeno del Nagorno-Karabak” aggiunge in coda a Radio Kabul, buttandosi nel gorgo sempre vivo di ogni guerra, come in ogni guerra rivivono tutte le guerre mosse tra gli uomini, ricollegandosi al qui e ora della ripetuta Storia.

Insomma, in questa improvvisa ma lungamente cullata (il cullato in realtà è stato solo Ferretti perché se fosse stato per gli altri componenti dei CCCP, il gruppo non si sarebbe mai sciolto: (Cascasse pure il Muro!) riunione, si offre invero una rappresentazione plausibile di quello che, irripetibile, è stato; insomma, ci si trova davanti a un Amarcord lontanissimo dalla febbre originale, il punk, ma ugualmente imperdibile: tutto si regge intorno alla figura di Giovanni Lindo Ferretti, perché non si può non andare a vederlo e ascoltarlo cantare ancora e meglio di allora il miglior punk fatto al mondo perché, per vocazione sovietico, conteneva contiene e conterrà per sempre una dura critica politica a quello che siamo perché mai altro diventeremo da questo che siamo – e sarà sempre in voga perché la canzone è, quando è fatta così bene, la più potente forma di comunicazione che esista, e l’opera intellettuale più potente.

Non credo che i CCCP, nella loro versione in carne ossa voce trucco parrucco e panza, sopravvivano oltre questo tour, perché Giovanni Lindo Ferretti, con quanto gli spetta in danaro alla fine della fiera, vivendo credo con appena 2 euro al giorno, penso che possa campare tranquillamente a Cerreto Alpi fino alla fine dei suoi giorni – ma ho motivo di credere e sperare che Giovanni Lindo Ferretti, avendone necessità solo espressiva, tornerà a darsi nella sua versione più riuscita e compiuta, quella del mistico solista, checché ne dicano i giovani turchi: “Battagliero / Rispettoso lusinghiero / Il giudizio che si dà / Non lo salverà dal cielo / Il suo lucido pensiero / Disinvolto faccendiero / Del potere che verrà / Apprendista dell'impero / Oh! Battagliero”.

Come quel 16 febbraio 2015, anche in questa occasione l’ultimo luogo che ho voluto visitare prima di lasciare Roma è stato il Ghetto ebraico, dove ho anche pranzato prima di tornare a Teramo; e prima di lasciare anche il Ghetto, ho visto sul muro esterno della scuola in via Elio Toaff il lungo striscione-manifesto con i volti dei prigionieri ancora detenuti da Hamas nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 che ne reclama inascoltato la liberazione (prima azione necessaria per portare alla fine del conflitto), con sotto o sopra alcune foto un biglietto che aggiornava sulle condizioni del prigioniero raffigurato, se ancora prigioniero o liberato o ammazzato dai terroristi islamici palestinesi, e c’erano quattro biglietti appuntati sulle facce di Noa Argamani, Shlomi Ziv, Almog Meir Jan e Andrey Kozlov, gli ultimi a essere stati liberati dall’esercito israeliano lo scorso 8 giugno: lo striscione-manifesto è posto sotto la targa che ricorda i 112 allievi della scuola che furono deportati nei campi di sterminio dal fascismo – ma in realtà il Ghetto ebraico non è l’ultimo luogo della Capitale che ho visitato perché sono stati due altri luoghi che ho visitato lasciando Roma diretto all’automobile, e sono la linea B e A della metropolitana; la prima, che striscia sotto i quartieri più disagiati, è servita con vecchie macchine dall’aria maleodorante e senza condizionatore per cui i finestrini aperti a decine di metri sotto la superficie del suolo e dove per rendersi conto delle fermate bisogna tenere bene in vista il cartello rettangolare posto sopra ogni uscita sperando che le porte di aprano alla fermata vicino all’insegna esterna che indica la località di sosta, tanto per capire fin dove si è arrivati; e l’altra che striscia invece sotto i quartieri più agiati servita allora da macchine nuove dotate di aria condizionata e display che avvisa, anche vocalmente, della successione delle fermate; insomma, andando via da Roma, come dice una vecchia poesia del romanissimo Remo Remotti, ho fatto esperienza di una forma di razzismo sotterraneo che, indisturbato, sposta il carnaio romano, fatto questo che, forse, non ammazza fisicamente nessuno ma che, strisciante, uccide ugualmente la dignità dell’uomo.

MASSIMO RIDOLFI

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