MUSICA: NICK CAVE IN PARIS
“Ho visto Nick Cave a Parigi recentemente alla Accor Arena e sono rimasto veramente colpito da questa canzone Joy dove canta: ‘Abbiamo subito tutti troppo dolore, adesso è il momento di gioire.’ Stavo pensando tra me, sì che è grossomodo così.”
A scriverlo il 19 novembre scorso sul suo profilo X è stato uno dei ventimila che hanno assistito al concerto di chiusura del Wild God Tour di Nick Cave & The Bad Seeds; spettatore che ha pensato bene di fare una tappa a Parigi, rientrando da Londra, prima di tornare a casa. Ah, questo spettatore pagante risponde al nome di Bob Dylan.
Cave non sapeva della presenza di Dylan fra il pubblico e ne è venuto a conoscenza solo quando due giorni dopo il menestrello di Duluth ha fatto sapere al mondo che era stato al suo concerto, dopo aver chiuso il 14 novembre il suo di tour europeo alla Royal Albert Hall di Londra, dove ha suonato tutte le sere con la sua Band dal 12 al 14.
Non sono mai stato un fan di Cave, non mi ha mai convinto pienamente – anzi, non sono mai stato un fedele di Cave (cantante da amatori, si potrebbe pure dire) ma ho sempre seguito con interesse la sua carriera, prendendo in considerazione la sua conoscenza della Storia della canzone popolare americana e del suo più rivoluzionario interprete, Elvis Presley ovviamente, che omaggia anche in questo tour riproponendo Tupelo, dal suo secondo album, The Firstborn Is Dead, 1985; e le sue vicissitudini famigliari mi sono trovato pure a seguire, almeno dal 2014 con la visione di 20,000 Days on Earth, che precede la drammatica morte del figlio quindicenne, Arthur Cave, questioni che nell’ultimo album, il 18°, Wild God appunto, in qualche modo ritornano come tributo complessivo di espiazione della colpa – ma, allo stesso tempo, diffido sempre di chi a un certo momento comincia con il predicare i testi sacri a mo’ di pagana formuletta penitenziale o, peggio ancora, autoassolutoria; testi invero praticati sin dall’inizio dal cantautore australiano ma con fare più sconsacrato, sicuramente non sacramentale come gli succede invece di fare negli ultimi vent’anni: è inutile negarlo, invecchiando, ovvero approssimandosi alla morte, si finisce sempre per cercare Dio.
Ho scritto “fedeli”, sì. Perché chi segue Cave non è un fan qualunque ma un seguace di una religione, perché le sue esibizioni somigliano più a dei gospel evangelici che a dei concerti rock. Difatti lui, elegante tinto e carismatico come un predicatore protestante (o un vecchio maestro di tango di Buenos Aires con l’abito che odora di naftalina e profumo dolce, come appena uscito dal barbiere), tutto immerso dentro una liturgia tutta sua fatta di una sorta di maledettismo mistico, dice messa cantata ai fedeli giunti al suo proprio tempio itinerante, fedeli che ne assumo convinti verbo ed estetica.
Ed è quello che tutti oggi possono vedere attraverso il canale YouTube Arte Concert, una vera miniera d’oro per gli appassionati di tutta la musica, accessibile gratuitamente e senza alcuna interruzione pubblicitaria, che dal sette di aprile ha reso disponibile proprio il concerto commentato da Dylan.
Il coinvolgimento del suo pubblico di fedeli è leggendario e si registra anche in questa occasione – qualcuno pare abbia abbandonato il concerto per la troppa commozione. Insomma, il fanatismo con Cave è cosa tangibile più che seguendo altri autori. I fedeli di Cave pendono letteralmente dalle sue labbra e dai suoi mugugni come a una fonte farebbe l’assetato dopo la traversata del Sinai. E Cave sa di essere al sicuro con loro. Di potersi fidare. Di potersi poggiare. Di poter lasciare loro persino il suo costosissimo microfono, che, difatti, puntualmente gli viene riconsegnato al primo cenno per poter proseguire la sua messa a gospel. Perché i suoi fedeli lo seguono come portatore indiscutibile di tutte le loro verità, senza distrazioni – senza possibilità di distrazione.
Sì, anche questo ultimo concerto di Cave è un gospel evangelico che canta deciso la sua vita d’artista, mistico e maledetto, sudando una sola camicia ma fino ai polsini – che alla fine di tutto, e delle parolacce, e dei mugugni, e dei gesti, ci si riconcilia sempre abbracciati dentro una rassicurante ballata: sì che è grossomodo così.
MASSIMO RIDOLFI