«La croccantezza
è sempre la stessa:
un frusciare d’ali
il vento che fiata
e la voce gialla.
Roca di grotta e faglia.»
CHIARA ALBANESE
L’unico libro di poesia pubblicato in esordio cui mi è capitato di ripensare i questi ultimi quattro, cinque anni di letture, è Il cormorano Bryan (Puntoacapo 2020) di Chiara Albanese. Pagine che a un certo punto hanno risuonato in me davvero nuove, identitarie, salve da manierismo, che non cercano altro che contenere singole poesie, così nate, native, che testimoniano una matrice originale.
Adesso ho fisicamente ripreso questo libro, sottile, di poche pagine: in appena quaranta pagine Albanese raccoglie trentatré poesie divise in quattro sezioni, in quattro tempi. Libro maneggevole. Che nella borsa non dà fastidio. Sta buono lì e si lascia aprire quando si ha voglia. Ammorbidito dall’uso. È un libro dove ricorro letture, nomi e maestri ideali. Un corollario variegato; un buon viatico.
I versi della Albanese sono piani ma ritmati: è capace questo poeta dell’isolamento ritmico-metrico del singolo verso, di una convincente spezzatura intro-strofica, come nel componimento in epigrafe, Oracoli del Sud (p. 29); in altri invece il suo passo si fa tanto deciso da riuscire nella forma di una sintassi che può anche fare a meno dei segni di interpunzione, financo del punto a fine componimento, come, a titolo di esempio, in Dai rumori del paese (p. 33); passaggi ben sorvegliati affinché non rovinino nella prosa anche nei rari componimenti più lunghi, che minacciano di scavalcare il bordo pagina come accade nella straordinaria Appunti di genealogia (p. 19), dove il suo vocabolario, che acutamente non teme l’ordinario, ci promette che “Guarderà Beautiful / si aggiornerà / non è tutto un campo di lillà.” – e poi “Lì vicino puoi trovare Lidl Ekom e Tigodà, / svolta a destra e alla rotatoria / prendi la seconda poi sei là.”, in Amanti della tecnologia (p. 21), dove le parole (ricordiamocelo sempre prima di farci prendere da scialbe masturbazioni cerebrali, che per tali attività è sempre meglio usarle le mani) si usano per dire.
In buona sostanza i componimenti della Albanese non tentano altro che il racconto giocoso (e qui mi piace ricordare un illuminante precedente nell’opera enorme di Vito Riviello) dei giorni, e di azioni dentro quegli stessi giorni (dove “il passo avanza, / ancora una volta / uno davanti all’altro, tremante.”), che il poeta sa catturare con gesti brevi e fulminei dentro la pagina, che anche ad aprirla e chiuderla infinite volte restano lì, pronte a farsi rileggere, senza alcuna necessità di inscenare fortilizi del sapere.
C’è da notare anche che nella poesia di Chiara Albanese c’è evidente una anima meridionale (non a caso l’autrice è genovese ma di origini calabresi), gialla, che cerca la luce ardente del sole e il riflesso su acque e costoni dove difficilmente le cose combaciano “ma una forma verrà ristabilita.”
Quindi un libro fatto di poco. Di un poco ma buono. Onesto. Che non si nega atrocità e dolcezza. Che mai si slabbra nella predica, o cade preda dei fumi ombelicali.
MASSIMO RIDOLFI