Una volta mi è successo nella vita che un libro mi svegliasse nella notte, che mi richiamasse per una nuova lettura; un libro che mi risultava sfuggente, rarefatto: quelle soglie che aprivano ogni sezione (anche brevissime, persino di due soli testi), epigrammi anche di un solo verso che segnavano il percorso del poeta.
Molti sono i poeti che hanno svegliato il mio sonno in quasi trent'anni di ricerca matta e disperatissima, nascosta, tutta in solitaria, fatta innanzitutto per me stesso: mi hanno svegliato magari solo perché appuntassi la giusta parola da usare in una traduzione. Ad esempio con Robert Frost discuto ininterrottamente almeno da due anni, perché io della campagna non so nulla e sto imparando tutto da lui, di pascoli da falciare, piante da potare, frutti da cogliere, muretti a secco da tirar su. Ma mai un libro mi ha chiamato nel sonno fino a costringermi a riprenderlo, a riviverlo: ché non dovevo perderlo nelle infinite letture di tutto e tutti.
Questo libro mi chiamò più forte all'alba e mi costrinse a rileggerlo alla luce grigia nei primi attimi del giorno, quando si ha come la sensazione di rinascere: era un settembre, e si chiarì ogni cosa.
Questo libro è e sarà per sempre Il prato bianco di Francesco Scarabicchi (1951-2021), un libro che anche il grande Maestro lamentava essere stato poco trattato dalla critica, che per primo chiese e pretese da Einaudi di ripubblicare, quando quésti si accorsero, distratti per almeno vent'anni dai salotti buoni solo alla chiacchiera letteraria, che il più grande lirico di questo secolo mancava al loro catalogo.
Il libro fu pubblicato per la prima volta da l'Obliquo di Brescia nel 1997 e contiene testi elaborati tra il 1988 e il 1995, che l'editore torinese ripropose esatti venti anni dopo nel 2017, ora come allora dedicato a Franco Scataglini, Maestro primario di Scarabicchi: “Ha le dita leggere / l'infermiera / che in eterno / carezza / la tua fronte” appunta in Dittico di agosto “quando nel quieto sonno / cadde la sentinella”.
Ma i libri di questo poeta, di rara generosità, sono sempre ricchi di formule dedicatorie. Di doni di riconoscenza. Propensione d'animo che ho avuto modo di sperimentare personalmente nei nostri sporadici e asciutti riscontri via posta elettronica. In uno scambio mail del 20 settembre 2017, dove mi congratulavo di questa sua recuperata pubblicazione e del suo encomiabile lavoro, aggiungendo anche un mio omaggio in versi, mi scrisse: «Caro Massimo, ti sono grato per le parole e per i versi “di ritorno”, distici preziosi di sensibilità e riconoscenza, tu a me, io a te. Sta tutto in quel verso ("nell'aria che non mi tiene") che vale un apprendimento».
Sempre necessario nel suo dettato è quindi l'interlocutore: Scarabicchi scrive sempre a qualcuno che ha incontrato nel suo spazio o in altri spazi, perché il suo è sì uno scrivere necessariamente solitario ma dove non incontra mai la solitudine.
Libro di Francesco Scarabicchi questo dove più che mai predomina lo spazio bianco a solo servizio della parola.
MASSIMO RIDOLFI