«Nel buio risplende il me bambino
Che hai rapito con il desiderio d’essere madre»
Alessio Miglietta
“Nelle cavità della mia mente / Ho sentito una nebbia densa distendersi” (p.11): inizia così il racconto esistenziale di Alessio Miglietta, perché è inevitabile che in un’opera letteraria ci sia racchiusa l’esistenza del suo autore, uomo capace, però, dell’invenzione: è questo l’autore, un inventore; e in poesia è un inventore di forme dove conservare i suoni, la musica; la risonante musica; la risonanza della musica.
Quindi ancora di più, ma come sempre, mi avvicino con l’orecchio alla lettura di questo libro; che allora seguo con l’orecchio e ne verifico con il corpo la consistenza vibratoria de la risonanza di cui è capace ogni sillaba della parola, che per vivificare va letta con l’ausilio della voce, sempre.
L’immagine di noi è deforme, sembra volerci dire questo poeta, viventi di un corpo che cambia dentro la storia particolare che racconta ognuno di noi: che si adatti o, al contrario, resista, inevitabilmente, il corpo muta, deforma. Si fa altra cosa, perché: “Nella notte più profonda è ciò che sono diventato” (p. 12).
Dove pare manchi il sole, le tenebre. Luoghi del cambiamento. Del rinnovamento, anche a morirci dentro, prima che il mondo crolli: “Prima che il mio mondo crolli” (p.14) torna a dirci Miglietta, vale a dire tutte quelle pensate e costruite certezze di un attimo appena precedente.
Dove pare manchi il sole? Allora bisogna cercarla una luce, una qualche luminescenza in fondo a questo libro, scavandolo con le dita pagina dopo pagina, scartando il battito insistito di una lirica angosciosa, perché a uno scrittore, a un poeta, non è mai concesso di morire dentro il proprio libro. È questo l’intento di ogni lettore. È questo il fare consegnato di ogni scrittore: lasciare una luminescenza.
Luminescenza? Che poi vuol qui significare il momento dentro il quale il poeta (qualsiasi poeta) torna ad alzare lo sguardo staccandolo da se stesso e ritrova un orizzonte che ci raccolga dal vero tutti.
E questo orizzonte luminescente si ritrova, finalmente, dentro una promessa: “Ascoltai il richiamo di quel ch’ero stato / Mi addentrai nella foresta del sapere / Tra valli di dubbio e pozze di paura / Strappai i tessuti della mia trama interiore” (p. 47), così il poeta sceglie di non restare infisso dentro un buio pensoso, "Tragico errore dove l’uomo si avvolge senza destino” (p. 59), e salva tutta questa reiterata, faticata scrittura in cerca di una possibile superficie dove aderire al dato di realtà; e salva e l’immagine, e il deforme, perché “L’uomo giace sfinito, senza più domande / Nell’arida pianura della tregua” (p. 59).
E forse ha ragione questo poeta: solo capitando nelle tenebre si riesce a sperare la luce, la luminescenza; e solo da lì di riuscire a vederla.
MASSIMO RIDOLFI