Prendere in mano – e aprendolo a caso – l'ultima pubblicazione di Antonio Alleva, per associazione ideale, mi ha riportato alla mente un meraviglioso libro di Charles Simic (che ci ha lasciati proprio al cominciamento di questo anno 23, quindi questa associazione del pensiero mi è particolarmente cara, che qui ho il piacere di conservare) dedicato a Joseph Cornell, Il cacciatore di immagini, da Adelphi, 2005.
Infatti, aprendo il libro di Alleva si ha come la sensazione di aprire una scatola di oggetti dove ogni cosa che vi è conservata è immancabilmente associata a un ricordo, proprio come Cornell ideava e costruiva, chiuso nel suo garage a Nyack, le sue shadow boxes riempiendole di oggetti minimi, persino raccattati per strada, solo rifiuti per altri ma non per l'artista newyorchese, geniale accumulatore seriale che sapeva fare dello scarto di altri reliquia.
Quindi dentro questo libro-scatola di Alleva troviamo due ritratti del poeta, due testi autografi e ben due sillogi di poesie, che sono – sia chiaro – due opere singole e indipendenti ma giustapposte in una sola pubblicazione per volere del poeta, Cronache di fine Occidente e La Collina del Dingh, zeppe di rimandi e formule dedicatorie (che da sempre amo ritrovare nei libri di poesia, che ci impazzisco dentro di divertimento) che tracciano il sentiero proprio di questo autore, unico e quindi riconoscibile, tutto camminato, che impreziosisce del suo fare le Lettere italiane, in lingua e dialettali, con esiti straordinari in entrambi i casi, pur rimanendo insuperabile l'aderenza del dialetto ai fatti del vivere, imprescindibile materia prima della poesia (raccomando una più attenta lettura della sezione Li chjacchjarate 'nghë Batine, incastonati diamanti del secondo gioiello contenuto in questa “scatola” di preziosi, La Collina del Dingh).
Ecco, dicevo di oggetti, di Alleva e di Cornell, perché non c'è nulla di più solido, scultoreo di una poesia, e questo poeta torna a darcene prova ed esempio, perché con la stessa perizia con cui l'artista americano poneva i suoi oggetti dentro le sue proprie scatole surrealiste, il Nostro avvicina le sue parole all'interno dei suoi componimenti, e con una attenzione grafica rara perché ricerca sempre un senso che comprenda il testo a partire dal titolo, targa, verso generativo di ogni poesia di Antonio Alleva. E basta già solo fermarsi a guardarle queste poesie per apprenderne la loro proprietà solida, di corpi solidi, che il poeta neanche più si ferma ad appuntarle, che elabora e rimastica nella sua mente fino a che non assumano la concretezza di una forma – di un oggetto per l'appunto – a quel momento davvero riproducibile dal vero di una pagina a stampa.
Mi è agile questo parallelismo, istintivo, naturale, non ricercato, tra il lavoro di Joseph Cornell e di Antonio Alleva perché anche il Nostro poeta ha sempre trovato negli angoli remoti del vivere gli oggetti finiti per comporre le sue poesie, ovvero la testimonianza dell'esistente per farne preziosa reliquia.
MASSIMO RIDOLFI