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POESIA: QUESTO SPENTOEVO

Cultura  | 21 April 2024

«Togliti dalla lontananza
vieni, entra nella stanza
Gianfranco Lauretano

Gianfranco Lauretano ha una qualità che manca a quasi la totalità degli artisti: l’umiltà. Ad esempio la sua scelta professionale – di impegno civile e missione di una intera vita – di fare il maestro di scuola elementare denota tutta la sua chiara adesione alla sostanza dello stare al mondo, prima di tutto come uomo, poi come lavoratore del pane quotidiano, e ancora di intellettuale autentico e, infine, di poeta che guarda e si misura con le proprie azioni nel mondo con l’umiltà di non sapere nulla, di stupirsi sempre del prossimo respiro. Tutto questo a significare che siamo innanzi a un autore che ha appreso piena consapevolezza della propria presenza politica all’interno della società che vive: per presenza politica si deve sempre intendere di chi ha una idea di società da mettere in pratica.

Solo con questo grado di civiltà si può scegliere il rischio di ripercorrere a proprio modo la strada di chi ci ha preceduto come Lauretano si è proposto di fare nella sua ultima pubblicazione, Questo spentoevo (Graphe 2024), dove prende, ricalca e fa sua (di rima in rima; di brevità in brevità) la Lezione di Giorgio Caproni, “Ahi mia voce, mia voce. / Occlusa. Rinserrata. / Anche se per legame / musaico armonizza.”: è da qui che costruisce la robustezza del suo esile libro, di poche pagine, perché la poesia si fa di poche cose, le più semplici, in apparenza – a contarli con le dita si tratta appena di 15 componimenti (compresi due tre poemetti molto brevi), ma densi, tesi, maturati nella distanza di sette anni dalla sua ultima pubblicazione in versi, Rinascere da vecchi (Puntoacapo, 2017) –; è da qui che Lauretano tenta di riprendere lui la di lui voce (ma non c’è solo Caproni in questo libro perché, in filigrana, troviamo anche Eugenio Montale e, però esplicitato, Giacomo Leopardi, onorando così compiutamente l’imprescindibile Nostra tradizione letteraria): il cesenate cerca in questo libro di dare armonia al suo mosaico di immagini terrene e – eh sì! – celesti.

Ma questo libro – i libri giungo sempre da un lungo viaggio – arriva invero da molto più lontano, perché riprende la radice di una sua precedente pubblicazione quasi omonima del 2013 (Questo spentoevo sta finendo, Alla chiara fonte edizioni, Lugano) della quale ripropone i testi fondativi di questo suo rinnovato lavoro, finalmente salvato, tolto dalla lontananza cui costringe questo tempo non più umano dell’eterno digitale, dove immagini, voci e testi godono dell’insipida eternità terrena, in qualche nuovo, nuovissimo modo della tecnologia – che è sempre un prodotto dell’artigianato umano, ma l’uomo l’ha dimenticato che sono sempre le sue mani a fare ogni cosa, così il Bene, così il Male. Ecco, in questa rimessa in opera, però, l’autore si ricrede della sperata prossima fine di tutto questo quasi a intravederne una sua propria indeterminata permanenza, e questa straordinaria revisione concettuale, quando arriva da un poeta, deve preoccuparci non poco.

Della pubblicazione del ‘13 Lauretano ne ricupera i testi dentro i quali si concede delle varianti e rinuncia alla divisione in stanze di componimenti che erano in origine dei poemetti facendone così ben sei poesie (delle 15 che compongono l’intera silloge) autonome ma sempre, immancabilmente organiche: anche questa rimodulazione del suo proprio dire ne prova l’umiltà di questo attento autore, donandoci in questo suo modo dell’operare in letteratura una Lezione di per sé, cioè quella della imprescindibile cura di se stessi se si volesse tentare di essere strumenti utili al fare collettivo dell’uomo, vale a dire utili all’umanità; e tutto questo suo rinnovato fare, appare evidente, serve (cioè mette in opera) la urgente necessità di una maggiore fluidità del discorso poetico (in poesia): Lauretano più che mai in questa sua propria rinnovata occasione si fa poeta civile, politico, vale a dire d’amore, come ogni poeta autentico.

Spentoevo è questo nostro quotidiano vivere una epoca dove si sono totalmente digitalizzati addirittura i rapporti umani, fino a crede davvero di conoscere dal vero il contatto social, quasi a illudersi di sapere le screpolature della pelle e l’odore che lo contraddistinguono, oppure quel non distinguersi più di volti tirati come pelli di tamburo e labbra rigonfie come ciambelle, che vengono buone per la prossima estate: qui il poeta coglie con incredibile acutezza critica lo stato delle cose e dona alla nostra lingua un solido neologismo, che già è dentro la lingua, che già si impasta nel linguaggio; e Lauretano questo dimostra di saperlo fare con intelligenza, vale a dire senza violentare il nostro italiano come si è fatto negli ultimi anni con stupidi segni che marcano una ideologia priva di pensiero perché pretende la negazione del dato oggettivo, persino dell’individuo promuovendo un essere generale, come a dire essere tutto e niente, perché impone il caso particolare come regola generale, cioè che manifesta una azione che pretende di riempire il vuoto con il vuoto; Lauretano in poesia assolve invece pienamente al ruolo che è solo del poeta, quello di custode e rinnovatore della lingua insieme.

Ma Lauretano, soprattutto da poeta, non si nasconde, e anche in questo suo libro ripropone il religio, il suo proprio collegamento a Dio (è questo a renderlo autorevole, vale a dire autore ben diverso dal Caproni del “Dio onnipotente, cerca (sforzati) / a furia di insistere (almeno) di esistere”, perché Lauretano vive nella promessa evangelica come concreto atto del vivere, Vangelo che più volte richiama in epigrafe: per questo poeta Dio non è un portafortuna, uno scongiuradisgrazie,  un cornetto o  un ferro di cavallo da portare nascosto da qualche parte; no, questo poeta manifesta chiara la sua fede in ogni suo atto, a partire dal fiato: “Gesù” invoca nomina e indica come “vero autore” a conclusione di questo suo rinnovato lavoro, e lo lascia per iscritto: azione la sua potente, coraggiosa, rilevante, vale a dire che lo eleva per compiutezza, per onestà intellettuale), praticato, vissuto, in un Paese dove per gli intellettuali è stato sempre problematico, discriminante addirittura dichiararsi credenti; scandaloso soprattutto essere cristiano di tradizione cattolica romana, uno stigma, un segno meno appuntato come una stella di Davide sul petto dell’autore dall’intellighenzia rossa, poi corrotta e degradata nel radical chic, e tuttora dominante anche se irrimediabilmente guastata nella vuota e vieta ideologia buonista del tutti e tutte. E Lauretano, fermo, saldo, dentro i suoi versi sa dirlo bene e a voce piena questo suo essere cristiano, questo suo vivere il Vangelo di Cristo, che vale a dire Vangelo degli uomini, perché è da uomo che Cristo si è misurato con la vita, e non ha schivato un colpo. E qui torna ancora tutto il senso di umiltà di questo autore. E il suo saper tornare alla radice. E il suo rifare quei passi già calpestati su un sentiero che si credeva conosciuto, fossero anche solo le pagine di un libro già scritto.

Il poeta, l’artista, è testimone del suo proprio tempo, che sa vivere con particolare intensità: Gianfranco Lauretano è autorevole e intenso testimone di questo nostro martoriato tempo; di Questo spentoevo che ci è capitato da vivere, e da fare, ché testardi siamo rimasti nella lontananza dall’altro incapaci di sciogliere la paralisi intellettuale che, stolidi, ci lega, ché non ci viene bene neanche il male a noi umani.

MASSIMO RIDOLFI  

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