Parto dal disegno, perché spesso così iniziano i libri di questo poeta, dal tratto essenziale, proprio, che arriva direttamente dalla sua particolare infanzia isolana – mi piace immaginare –, da Lipari, che sta in mezzo all'arcipelago delle Eolie, che annuncia al Continente la Sicilia: è un sottile filo nero quello che ricama la figura, forse di un giovane fante, sulla copertina di questo libro, con i riccioli sfuggiti alla feluca, a guisa di piccolo Napoleone.
È sempre lieve la penna di Davide Cortese, ma mai tremula. Sa premerne la punta giusto quanto basta a segnare il foglio bianco, per questo le sue parole non perdono mai di struttura e sanno dove posarsi per dirci chi siamo e quello che ci accade intorno: questo fa ogni artista.
E non ha paura di parlare con i morti, Cortese: “Nell'iride tua / è un dio ragazzo” dice a Pier Paolo Pasolini; e a fianco a questa splendida poesia dedicata al grande poeta, per magia, sempre in versi, ci racconta degli interrogativi che precedono un viaggio in Namibia, nel “grembo dolce della madre nera”, Africa dove Pasolini vedeva la salvezza del mondo, perché arcaica e pastorale, cioè povera, ancora dentro la verità della povertà perché allora non soffriva dei paraventi dello sviluppo, delle false strutture del progresso, che non fanno che imprigionare l’uomo, rendendolo inadeguato al vivere: “Africa! Unica mia / alternativa” grida disperata la chiusa di Frammento alla morte (La religione del mio tempo, Poesie incivili, aprile 1960, Garzanti, 1961), lui che avrebbe preferito essere uno scrittore in lingua swahili.
E Cortese sa stare nella Natura – del resto La Morte le procura il suo principale nutrimento –, con la quale entra in dialogo formale, vale a dire comprensibile, da figlio che nel suo grembo si manifesta e continua a vivere: “Chiedo ora di apprendere il perdono / dalla terra che offre alla luce la sua ferita / e di non temere nulla mai / com'è naturale al più piccolo fiore.” è il suo un rapportarsi tutto in amore, però, che mai guasta nella poesia innamorata.
Dopo il convincente, favolistico, Zebù bambino (Terra degli Ulivi 2021), Cortese torna al puro esercizio esperienziale, materia prima di ogni buona poesia, e così procede alla ricostruzione del suo particolare vivere e muoversi nel mondo per lacerti, che ferma più spesso al centro dello spazio bianco, che raramente distende oltre la verticale di una pagina; ma sempre i suoi testi conservano una compattezza plastica, tangibile, che resta cosa nel suono, che rende possibile allo strumento voce di dire musica, perché non ci sono mai sprechi nel dettato di Davide Cortese, sempre preciso e necessario.
Non hanno paura di farsi le poesie di Davide Cortese, né temono la Tenebrezza, perché capaci sempre di accendere una lama di luce.
MASSIMO RIDOLFI