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POESIA: TRANSUMANAR E ORGANIZZAR

Cultura  | 05 January 2024

«La dichiarazione di equidistanza dai due corni estremi è oggettivamente un appoggio al corno destro
PIER PAOLO PASOLINI (1922-1973) 

a Martina Cimini
a chi non dimentica Pier Paolo Pasolini

Sarà forse per questo mio arcaico cristianesimo cattolico anarcoide del non praticante, ma di tutta la Commedia ho sempre più amato il Paradiso – il Dante dell’Inferno non mi ha mai convinto, così livoroso e giudicante, privo di senso critico, manicheo, folkloristico. No!, non mi ha mai convinto: gli preferisco addirittura il Purgatorio. Quindi è l’ascesi al Paradiso che più amo della Commedia, la pura Luce, la piena illuminazione del Sogno. Non a caso è già al primo Canto, da subito, che Dante finalmente vede Beatrice: è accade appena alla seconda terzina (24a, vv. 70-72), dopo che l’ha vista, che usa un predicato verbale nuovo, mai sentito prima sulla Terra, da per terra, con quel suo italodialetto, sempre incerto, zoppicante, pieno di zeppe: “Transumanar significar per verba / non si porìa: però l’esemplo basti / a cui esperienza grazia serba.” Non si può spiegare l’ascesa dello Spirito a parole ma solo con l’esperienza diretta si può comprendere.

Transumanar e organizzar è l’ultimo e più difficile e frainteso, perciò più potente e duro – sorgivo come la Risurrezione –, libro di Pier Paolo Pasolini (in verità l’ultima sua pubblicazione in vita è per il teatro con Calderón, Affabulazione, Garzanti, 1973); pubblicazione difficile da accettare, dove già dal titolo ci dice che ascendere è possibile solo se ci organizziamo a lasciare tutto il superfluo, consumi e tradizioni compresi, perché per salire si va leggeri. Quindi il poeta bolognese, per ritornare alla poesia, riparte proprio dalla terzina dantesca testé citata. Un libro che lo stesso Pasolini denuncia essere “costituito da documenti, o privati (a testimoniare una vita) o letterari (a testimoniare una evoluzione linguistica e intellettuale).” Allora il primo dato che si dispone per poter affrontare la lettura di questo libro è una dichiarazione di non conformità. Qui Pasolini rende i suoi ultimi conti alla società dei consumi nella quale ha interpretato il doppio ruolo di vittima e di complice: “Io non ho più il sentimento / che mi fa avere ammirazione per me.” (La nascita di un nuovo tipo di buffone, p. 57); o meglio, di vittima fino alla complicità, una partecipazione allo sfacelo operato sopra l’uomo dal Capitale che non abbuona nessuno di noi. In più, all’epoca della pubblicazione, sono esatti dieci anni che Pasolini ha impegnato anima e corpo dentro la ricca macchina del cinematografo.

Subito, partendo dalla tradizione per liberarsene, il poeta ci dice “come nessuna società contenga il mondo” e che si vive una vita “che supera di tanto lo stesso / sconfinato contenere degli Stati Uniti” (Egli o tu, p.7). A cinquantatre anni dalla sua pubblicazione (che poi sono anche gli anni che aveva il poeta quando fu ucciso), questo libro ci testimonia già alla prima pagina la portanza del futuro che continua a contenere, a portare in avanti. Sappiamo quindi dall’inizio che questo è un corposo libro di lunghissime o brevissime lettere invettive al mondo che verrà – e sicuramente non risparmia “certo fascismo di sinistra” e di parrocchia senza carità con i quali fa i conti subito nel lungo componimento L’enigma di Pio XII (dove il poeta stesso impersona l’io del Pontefice della morta carità), concetto che chiosa con una velenosa nota a piè di pagina (p. 16), che poi spruzza nel testo quando ci dice: “Vi dirò: anche il Partito Comunista, in quanto Chiesa, è commovente.” Ed ecco la poesia civile, come lo è ogni vera poesia. Quella di sempre. “Polemici poeti! / Che non voglion sentir parlare di fughe”, insiste Pasolini, che ci consegna fogli scritti rapidamente, di corsa e di rapina, a “significar per verba”; scartafàccio comprato ma mai venduto che raccoglie gli scritti in versi degli ultimi cinque anni, 1965-1970, che ritornano alla Lezione di Bertolt Brecht quando ci insegna che nell’urgenza della lotta si taglia dritto per dritto e si dice pane al pane e vino al vino senza perdersi in poco utili contorcimenti estetici, poeta che Pasolini ha sempre guardato con ammirazione ma anche con un certo timore, e ha pure imitato a un certo punto quando, contemporaneamente alla stesura di questi versi, ha cominciato a scrivere le sue prime drammaturgie, il suo Teatro di Parola, anche se nel Manifesto per un nuovo teatro (1968) tenta un impossibile allontanamento: “In tutto il presente manifesto, Brecht non verrà mai nominato. Egli è stato l’ultimo uomo di teatro che ha potuto fare una rivoluzione teatrale all’interno del teatro stesso: e ciò perché ai suoi tempi l’ipotesi era che il teatro tradizionale esistesse [e infatti esisteva].” Una ingenuità questa perdonabile, come se si illudesse di agire per tabula rasa, quando invece ogni rinnovamento che sia possibile (e credibile) poggia per forza su fondazioni stabili. Ma insiste: “[...] va aggiunto che tra falsetto e poesia didattica / ci si imbatte in Brecht: / che tuttavia, a proposito di luce, direi che non sa nulla” (Proposito di scrivere una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio», p.63). Un’altra ingenuità, se vogliamo intendere questa luce come metafora del marxismo, quando invero ha fatto più il poeta di Augusta per la lotta di classe, con coscienza e conoscenza di classe (rinvio a Il mondo salvato dai ragazzini, p. 46), che lo stesso Karl Marx, però al licenziamento di questo libro erano già successi i fatti di Budapest ‘56, ampiamente digeriti ne Le ceneri di Gramsci (1957), e di Praga ‘68, e poi il feroce rogo rivoluzionario di Jan Palach in Piazza San Venceslao, 16 gennaio 1969.

Ecco, a questo punto si può azzardare una considerazione critica sulla pubblicazione, che, però, è anche un concetto di carattere generale, cioè una considerazione mutuabile: la contemporaneità dell’opera sta tutta nell’antichità dell’uomo, cioè di un uomo che sa evolvere tecnologicamente ma non sentimentalmente. Questo dato oggettivo coglie il poeta, crudamente, dalla vita – con costruttivo cinismo.

Difatti Pasolini esercita una liturgia feroce quando evoca i compagni di lotta: “Se tu morirai, noi ammazzeremo. Sceglieremo una vittima significativa: / che non vuole morire, conoscendo la dolcezza di prima della rivoluzione! / Non ci limiteremo ai digiuni come Danilo Dolci.” scrive a un agonizzante Alexandros Panagulis (p. 32) – dove ritorna il lume a luce brechtiana: “Alla violenza dei singoli come a quella delle classi privilegiate bisogna contrapporre la violenza, tutta la violenza annientatrice del popolo.” (Scritti sulla letteratura e sull’arte, Bertolt Brecht, Einaudi, Torino, 1975, p. 139). Carte quelle contenute in questo libro di terminale e dura militanza che lo porteranno, senza soluzione di continuità, a Petrolio (incompiuto), al lucido delirio di Salò o le 120 giornate di Sodoma (salvato al suo assassinio, 1975) e a consegnarsi ai suoi reali pornografici carnefici la notte del 2 novembre 1975 sul lido di Ostia: “[...] i miei versi saranno completamente pratici [...] Così, i miei consigli saranno di folle moderato. / Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza: / l’ambiguità importa fin che è vivo l’Ambiguo.” vaticina in Comunicato all’Ansa (Propositi), p.73. Ammazzare un poeta è tanto grave quanto ammazzare un bambino, sia chiaro! – “[...] preso da una irrefrenabile decisione brechtiana, dunque, / presi le mutande / [...] E allora cosa aspettano, questi idioti, / ad ammazarmi / [...] come va ragazzi, bel tempo, ma freddo / [...] cosa aspettate ad ammazzarmi o almeno a sputarmi in faccia? [...] e io cascherei per terra con questo mio corpo così cheap, da cane, / per  terra, sui rifiuti, e il gelo delle acque artificiali” qui sembrerebbe, inconsapevolmente questa volta, voler disegnare in anticipo, lucido e feroce, il suo stesso assassinio, in Poema politico, pp. 173-176, pur volendo in realtà discutere e impersonare la figura di Richard Nixon: “Non hanno eletto un superiore, ma un loro pari! / Per la prima volta nella storia delle democrazie!

Di tutte le sezioni, Pasolini raccomanda la lettura di quella che dà il titolo a tutta la raccolta, che sorprende per la sua computazione telegrafica, da telegrafo proprio. Cinque testi appena, dei quali tre brevissimi: “Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza / di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. / Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. / Naturalmente per ragioni pratiche.” Ci avvisa in Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica), p. 74, che è dichiarazione di poetica, vale a dire il portato della sua nuova poesia. Ma se si volesse di questo libro leggere solo una poesia, allora indica questa in La poesia della tradizione, p. 134 – io preferisco, se dovessi proprio sceglierne una, quella a p. 115 perché conserva ancora intatta la sua voce e il suo personale tormento, più che in altre pagine, che magari andrete a ricercare e a rileggere (particolarmente fortunato sarebbe invece chi la leggesse per la prima volta).

Ci sono poi due passaggi in Patmos, componimento che ragiona a caldo ma con incredibile lucidità sui fatti di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che apre i Poemi zoppicanti, dove Pasolini anticipa la morte di Giuseppe Pinelli (15 dicembre 1969): “Solo un suicidio porterà sulle tracce del responsabile di tal pianto.” (p. 119) e la propria: “La porta che dava sul corridoio della camera di mia madre / era aperta: da ciò arguii la sua inquietudine. / Essa ha ottant’anni, l’età di Gerolamo Papetti: / e penso a ciò che deve ancora soffrire.” (p. 126: Gerolamo Papetti è una delle diciassette vittime della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano). Da segnalare, sullo stesso tema e ancora di lucida occasione, la straordinaria, acida poesia dedicata all’assassinio del politico bavarese Karl Graf von Spreti, avvenuto in Guatemala il 5 aprile 1970 (p. 157), che apre la sezione Sineciosi della diaspora – sineciosi, da intendersi come sinonimo di ossimoro, è un neologismo coniato da Franco Fortini nei suoi scritti critici sull’opera di Pasolini, raccolti in Attraverso Pasolini (oggi presente nel catalogo Quodlibet).

Pasolini in questo suo ultimo libro di versi – “Potrei, in prosa, forse, dire la parola giusta: in poesia, / no. Ché così ho trovato finalmente il modo di non essere buono, / buono, come mi ha una volta per sempre insegnato a essere mia madre.” (Il mondo salvato dai ragazzini, p. 39) –, tutto votato al dire, unica funzione deputata alla parola, non usa né il fioretto della tradizione né la spada novecentesca: usa la sciabola crudele dell’oggi, del qui e ora della quotidiana lotta. Transumanar e organizzar è un libro monumento della Letteratura italiana e della sua lingua, depositato testamento olografo che preannunciava l’approssimarsi degli Anni di piombo, Capolavoro di un irredentista ancora in lotta che combatte inesausto lo straniero alla Vita.

Su tutto è sempre prevalsa l’idea, disperata ma rassegnata, che la propria vita si fosse rimpicciolita: ma che comunque fosse aumentato il piacere di vivere, in ragione della materiale diminuzione del futuro.”

MASSIMO RIDOLFI

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