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TRADUZIONI: NATURA MORTA CON COLTELLO

Cultura  | 05 February 2025

TRADUZIONI: NATURA MORTA CON COLTELLO

«Mai prima di morire io laverei
il pavimento signore
Lo impiastrerebbero sempre gli ospiti del funerale»
VLADIMIR JANOVIC

 

Aprendo questa ultima pubblicazione de Il Ponte del Sale (Natura morta con coltello, dal titolo di una poesia di Marie Leskovjanová, unica voce femminile presente nella raccolta, p. 63) non posso subito non correre alla traduzione di un testo di Bob Dylan (p. 53), ritrovata tra le carte inedite e disperse di Giovanni Giudici, foglio che riaffiora da più di trent’anni del lavoro di traduttore del poeta ligure. Trattasi di Train A-Travelin, una delle prime canzoni scritte da Dylan, una classica ballata folk di appena due minuti contenuta in New York Sessions 1962, forse il primo dei suoi tantissimi bootleg. È una canzone un po' dimenticata fra le centinaia di capolavori firmati dal menestrello di Duluth, che è autore di più di seicento componimenti.

Giudici ce ne offre una traduzione letterale, modo di versare certamente più apprezzabile di certi ridicoli artifici che tuttora quasi la totalità dei traslatori italiani di poesia americana propongono – eletta schiera dalla quale salverei solo Massimo Bacigalupo, che un po' procede nel suo lavorio  di travaso come nello specifico caso in esame.

Il testo è una denuncia contro la segregazione razziale in America – il Civil Rights Act che la abolirà arriverà solo il 2 luglio 1964 con l'approvazione del presidente Lyndon B. Johnson, portando a termine quelli che furono gli ideali di eguaglianza di John Fitzgerald Kennedy, rispondendo ai reclami di Martin Luther King – che infiammava letteralmente gli stati del sud, soprattutto dove si organizzarono i primi cortei di protesta e rivendicazione dei diritti civili, i Freedom Riders.

I militanti organizzarono la propria attività di protesta pacifica a partire dal 1961, dopo la storica sentenza del 5 dicembre 1960 della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America contraria alla segregazione razziale negli stati del sud: il caso Boynton contro lo stato della Virginia. Difatti questa pronuncia dichiarò illegittima la segregazione razziale su tutti i mezzi di trasporto pubblico. Bruce Boynton, un giovane studente di legge a Washington D.C., per le vacanze di Natale, del 1958, decise di tornare a Selma, Alabama, in pullman. Abituato a vivere a Washington D.C. si era un po' disavvezzato alla segregazione del sud. Quando arrivò a Richmond, Virginia, decise di scendere per mettere qualcosa nello stomaco ed entrò in una tavola calda riservata ai bianchi. Invitato a recarsi nei luoghi riservati ai negri, Bruce rifiutò di spostarsi e fu arrestato e multato. Da qui nacque il reclamo in sede giudiziaria.

Per questo i Freedom Riders scelsero i grossi pullman della Greyhound per spostarsi dentro gli stati del sud a portare la loro protesta, bianchi (pochi) e negri insieme, pigiati nel pullman. E per questo erano immancabilmente assaltati al loro arrivo, addirittura incendiati nonostante la scorta della polizia. Ed è denunciando questo che chiude la sua canzone, Train A-Travelin, Dylan: "Does the burning of the buses give your heart a pain? / Then you heard my voice a-singin' and you know my name. - Gli autobus incendiati ti danno una fitta al cuore? / Allora hai udito il mio canto e tu conosci il mio nome." (p. 53), una versione dattiloscritta presente nell'archivio privato del curatore Rodolfo Zucco (p. 119) di cui Dylan sarebbe contento a conoscerla, perché Giudici (classe 1924) poeta si fa da parte, e resta il traduttore e, sicuramente, l'appassionato di Dylan, l'attento al puro genio da salvaguardare, ché non è mai il caso a guidare la scelta del traduttore; e Dylan, credo, sarebbe anche contento di ritrovarsi in compagnia di Aleksandr Puškin (archivio Zucco, pp. 97 e 122-123), Hart Crane, Robert Lowell e altri più o meno noti o già dimenticati nel dire delle proprie lingue, come nel lungo omaggio ai poeti di Praga (importante la testimonianza di Giudici, raccolta nelle note, pp. 123-124, a proposito della versione da Jan Zahradnicek, pp. 101- 107) – sempre dallo stesso archivio arriva una traduzione da una poesia di Bartolo Cattafi, dove Giudici si avventura ingenuamente dentro una spericolata versione in inglese (pp. 49 e 119) di un testo italiano: solo un madrelingua può tentare di versare una poesia in altra lingua. Preziosissimi sono pure i versi qui conservati dell'arabo-siciliano 'Alì al-Ballanûbî (XI-XII sec.), pp. 111-113.

A me basta dire questo a proposito dell'importanza di questo raccolto ritrovamento che Il Ponte del Sale ci offre oggi di Giovanni Giudici, perché innanzitutto qui ci dimostra la sua perizia di studioso salvandoci dalla banalità che si nasconde e minaccia dietro ogni versificare in altra lingua dall'originale, che non deve mai essere un tradimento o (peggio ancora mi-vi sento) riscrittura, come al contrario affermano scioccamente in troppi e sicuramente i peggiori; quando è invece vero che la migliore versione non può essere di più di una onesta testimonianza di un sicuro fallimento – per tutti gli altri autori, invero, Giudici si concede degli sfasamenti poetici, soprattutto nel mancato rispetto della distribuzione del testo sulla pagina, non considerandone l'a capo e così finendo per prolungarli di qualche verso; ma tutto questo si offre a un attento studio sul processo di traduzione, reso però non agevole per la mancanza del testo originale a fronte e quelli disponibili dagli originali si trovano nelle note a fine libro – pur ammettendo che questo sperimentato muoversi avanti e indietro all'interno del libro rende l'analisi più gustosa perché non di facile guadagno. 

 

In ogni caso è apprezzabile, linguisticamente, l'attualità di tutte le traduzioni qui collezionate, molte risalenti agli anni '50 e '60. Allora, per dirla con Edoardo Sanguineti, quando, commosso, con gli occhi lucidi, commentava la Commedia e le sue imperfezioni, questo è un libro da leggere e da studiare, proprio come ha fatto Stefano Garzonio nella nota che chiude la pubblicazione (pp. 126-134).

Per quanto mi riguarda, il mio tentato "incontro" con Giovanni Giudici è cominciato molti anni fa quando correvo come un pazzo alla ricerca del suo introvabile Robert Frost, senza esito alcuno (Conoscenza della notte e altre poesie, Einaudi, 1965), in quanto unico traduttore italiano a confrontarsi col grande Contadino della Nuova Inghilterra, almeno fino al 2022, cioè fino a che Silvia Bre e il sottoscritto non ci mettessero su le manacce, ognuno per proprio conto, e io iniziando il mio grosso lavoro di ricerca, critica e traduzione sull’opera del Vate d'America, di cui sono già disponibili i primi due volumi. Quindi finalmente ritrovo qui e ora Giudici nelle vesti di traduttore con piacere e superato ogni giovanile affanno – poco tempo fa a un funzionario della Library of Congress che, via mail, mi chiedeva come desiderassi venissero catalogati i miei lavori lì custoditi, a proposito di quelli di traduzione, ho risposto: Con l'opera di traduzione il testo diviene parte integrante del grande patrimonio della letteratura italiana.

Valuto, senza tema di smentita, i libri de Il Ponte del Sale come le più curate e sorvegliate pubblicazioni di poesia oggi in Italia.

MASSIMO RIDOLFI  

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